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Maria Carozza ved. Tamburrino Giuseppe

Negli anni '50 molti giovani e capifamiglia, spinti dal bisogno di pagare i debiti contratti per la ricostruzione della casa e dal desiderio di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, emigrarono verso terre lontane, con il fermo proposito di farsi raggiungere, quanto prima, dai propri familiari. La speranza di trovare altrove un lavoro sicuro ed una vita migliore leniva il dolore del distacco dalle persone e dalle cose più care.
Il 29 novembre 1955, dopo tante esitazioni e rinvii, partì per l'Australia anche mio marito, Giuseppe Tamburrino, insieme ad altri 2 monteneresi: Domenico Gentile e Antonio di "gimmett". Fu un giorno di grande tristezza per noi tutti. A causa di una forte bufera di neve quella mattina essi dovettero andare a piedi a Torricella Peligna (7 Km) per prendere la corriera per Lanciano e da lì andarono a Napoli da dove si imbarcarono per Fremantle, la città australiana di destinazione dove arrivarono la vigilia di Natale dopo ben 24 giorni di navigazione. Furono accolti da Pasquale D'Antonio, un montenerese emigrato in quella terra molti anni prima, già ben integrato e che "garantiva" per i suoi paesani nuovi immigrati. Da quella città Peppe, mi scrisse la prima lettera in cui, tra l'altro, mi diceva che era difficile trovare un buon lavoro e che pensava di spostarsi in un'altra città, Perth, dove c'erano maggiori possibilità di trovare un lavoro meglio retribuito. Dalla sua lettera si percepiva che non era contento della situazione e chiedeva notizie di noi tutti, in particolare, dei nostri 4 figli, tutti piccoli. Da Perth ricevetti una seconda lettera. Peppino aveva trovato lavoro in una miniera che si trovava tra le montagne dell'entroterra di quella regione, in mezzo al deserto. Mi rassicurava che il lavoro, benché duro, non era pericoloso: egli era addetto, con altri, a spingere i carrelli che trasportavano i detriti dall'interno all'esterno della miniera. Il fatto di aver lavorato già in una galleria a Villa Santa Maria e di stare insieme a Ghioppe di sarrà era un sollievo per lui ed anche per me e per tutta la nostra famiglia. Con quel lavoro, diceva nella lettera, poteva fare qualche risparmio e incominciare già a pensare al nostro ricongiungimento in quella terra, il sogno di noi tutti.
Un sogno, una speranza, purtroppo, stroncati inesorabilmente da un tragico incidente sul lavoro.
Peppe aveva 34 anni e ci lasciava per sempre. Io ne avevo 31, i miei 4 figli 9,7,4 e 18 mesi.
A noi, qui a Montenerodomo, la terribile notizia giunse tramite il Comune. Fu proprio mio suocero, Gigino allora vice sindaco, ad aprire la lettera in cui, in poche righe, si pregava di informare la famiglia che Peppe era deceduto tragicamente sul lavoro il giorno 11 aprile 1956, cioè neanche sei mesi dopo il suo arrivo in l'Australia. Per noi tutti fu un momento di immenso dolore. Per me e per i miei 4 figli fu la fine di tutti i sogni e i progetti fatti con mio marito e l'inizio di una vita di grandi sacrifici. A distanza di più di mezzo secolo, la sofferenza per la perdita di Peppino è sempre viva, anche se attutita dal tempo e dalla soddisfazione di essere attorniata dall'affetto dei miei figli, dei miei numerosi nipoti e pronipoti.

Con questo mio breve ricordo desidero onorare la memoria di mio marito che riposa nel cimitero di Leonora, West Australia, lontano da tutti i suoi affetti, e sottolineare l'aspetto più tragico dell'emigrazione, la morte violenta sul lavoro, che spezza ogni sogno.