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I segni indelebili dell'emigrazione

Questa testimonianza racconta la storia di mio padre, Francesco TAMBURRINO o meglio conosciuto come Franchino di Giambattista. Le motivazioni di questo intervento sono due: innanzitutto perché trattandosi di mio padre, in me è presente una forte valenza affettiva, e poi perché sono sicura che in questa testimonianza (pur di carattere personale) possono ritrovarsi le esperienze vissute da molti nostri compaesani.
Mio padre nacque nel '27 e da adolescente patì le sofferenze e la miseria della guerra. Nel '48 si sposò ed ebbe le prime due bambine. Non avendo a Montenero la possibilità di garantire una sussistenza degna alla propria famiglia, egli fu costretto ad emigrare, seguendo la strada di altri compaesani.
Mio padre, andò a lavorare prima a Roma; ma, non appena si aprirono le frontiere verso altri Paesi europei, emigrò per un anno in Francia, altri quattro anni in Belgio ed infine in Svizzera.
Anche se il periodo fuori casa fu determinante per tutto il resto della vita, tuttavia, l'esperienza in Belgio fu quella più decisiva, considerato il duro lavoro da minatore che egli era "obbligato" a svolgere.
La vita da emigrante è stata una vita di umiliazioni: la prima la definirei di carattere burocratico, poiché nel momento in cui i nostri uomini chiedevano un permesso di lavoro all'estero, erano costretti a sottoporsi a severi controlli medici, stesso trattamento di riguardo non si ripeteva quando si decideva di tornare in patria, sicuramente perché considerati come pura e semplice forza produttiva e non esseri umani con una propria dignità.
A queste umiliazioni si affiancavano quelle di carattere sociale: l'essere trattati da stranieri, coabitare con altri uomini di diversa cultura e nazionalità in una medesima e misera baracca e poi, la difficoltà della lingua non solo quella nazionale ma anche i diversi dialetti parlati dai coinquilini, spesso non comprensibili.
Il lavoro in miniera già di per sé pericoloso, risultava ancor più pesante ed insopportabile per i nostri compaesani abituati all'aria aperta e al lavoro nei campi e nei boschi, dove malgrado la miseria si lavorava uniti e in allegria.
In miniera, era tutto differente: si era costretti a scendere più di mille metri sotto terra, con arnesi rudimentali e privi di ogni accorgimento di sicurezza. Le retribuzioni venivano percepite secondo due principali forme di contratto: a giornata o a cottimo; mio padre scelse la seconda poiché permetteva di guadagnare in base all'effettiva produzione e non in base al tempo impiegato, cioè: più si lavorava, più si guadagnava e prima si tornava dai propri cari.
Mio padre raccontava molti aneddoti che lasciava trasparire la vita da minatore: episodi simpatici della vita quotidiana nelle baracche, episodi di rivalsa verso chi li voleva umiliare, ed infine episodi più o meno drammatici, come la tragedia di Marcinelle. A tal proposito, spesso mi raccontava che quando accadde la catastrofe nell'otto agosto 1956, mio padre era lì presente e doveva prendere servizio con il turno che poi fu coinvolto nella tragedia.
La provvidenza divina, però, volle che per un infortunio si recasse in infermeria, dove pochi minuti più tardi sentì il rumore stridulo della sirena e, quando uscì e si diresse sul posto, assistette ad uno spettacolo terrificante: le donne attaccate ai cancelli urlavano il loro dolore con la speranza di poter nuovamente abbracciare i propri cari.
Adesso mio padre non c'e più, ma fino all'ultimo momento ha portato con sé il ricordo disperato di quei volti.
Oltre a questi spiacevoli ricordi, la miniera ha lasciato in lui segni indelebili: il più evidente è stato la silicosi, una malattia professionale che lo ha portato alla morte; inoltre, anche sul corpo ha lasciato tracce perché, quando a volte toglieva la canottiera, sulla schiena c'erano strisce violacee e mi spiegava che erano le cicatrici delle schegge del carbone, che come tatuaggi lo hanno marcato per tutta la vita.
Sono sicura, comunque, che adesso mio padre e tutti coloro che come lui hanno vissuto la stessa esperienza, si sono presi per mano ed hanno formato un cerchio intorno a noi, e stringendosi ci abbracciano, con la speranza che per noi non ci saranno più umiliazioni, miseria e né miniere; e nello stesso tempo il loro augurio è quello di continuare a parlare di ciò che essi hanno subito, tutto questo... PER NON DIMENTICARE !.
(Testimonianza raccolta da Sonia Tamburrino)
* Sonia Tamburrino. Laurea in lettere, insegnante, consigliere comunale di Monteneredomo, è membro del Gruppo di lavoro ristretto impegnato nell'attuazione del progetto " Per non dimenticare.....la nostra memoria".