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Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (1ª parte)

4 ottobre 1943- 9 Maggio 1944

Francesco D’Antonio è uno studente di 19 anni. Frequenta la 5a classe dell’Istituto Tecnico Commerciale a Casoli. Vive con la famiglia a Selvoni, insieme alla nonna. Questo lavoro gli è valso il 2° premio al concorso letterario internazionale “Cesare De Titta”  in giugno 2004. Ringraziamo Francesco e sua nonna Maria per questa testimonianza densa di immagini emotive e sentimenti profondi, che pubblichiamo a puntate sul nostro website

Questa è la storia di una ragazza di 61 anni fa, che non ha conosciuto le incertezze psicologiche degli adolescenti di oggi, ma è stata costretta dalla vita ad affrontare prove dolorose ed eventi tragici. Questa ragazza è mia nonna ed io sono cresciuto ascoltando i suoi racconti, come se fossero favole o fiabe con innumerevoli peripezie, ma per fortuna a lieto fine. Mia nonna è analfabeta, ma io ho voluto che la sua vicenda umana, uguale a quella di tante altre persone, non si perdesse nel nulla. I pensieri, i ricordi, i sentimenti, quindi sono i suoi, le parole –per forza di cose– sono mie.

Sono trascorsi più di «sessant'anni, ma il tragico ricordo della guerra non mi ha mai abbandonato, ho vissuto cercando di andare sempre avanti e affrontando tutte le difficoltà che essa, giorno dopo giorno, mi metteva davanti, ma al solo pensiero di quel tragico evento non riesco ancora a credere di essere riuscita a superarlo.

Ero la figlia secondogenita di una coppia di contadini che abitava a Selvoni, una contrada di Montenerodomo, paese dove attualmente risiedo, In tutto eravamo nove figli, cinque maschi e quattro femmine; tutti, dal più grande al più piccolo, aiutavamo i nostri genitori nel lavoro in campagna perché a quei tempi la scuola era frequentata solo da chi poteva permetterselo; noi non avevamo i mezzi e il privilegio della scuola, spettò solo a mio fratello Luigi, in quanto primogenito, che dovette però rinunciare a soli otto anni quando aveva appena terminato la classe seconda elementare.

Anche se molto poveri, la vita trascorreva tranquillamente, tutti ci aiutavamo a vicenda e affrontavamo i nostri problemi sempre con serenità. Trascorrevamo intere giornate nei campi lavorando dall'alba al tramonto, anche i più piccoli davano una mano cercando di imitare i grandi e infine la sera esausti per il duro lavoro andavamo a letto presto per poi svegliarci il mattino seguente di buon'ora.

Trascorsi tutta la mia infanzia e la mia adolescenza aiutando i miei genitori perché a quel tempo solo i figli maschi potevano lasciare il paese in cerca di lavoro; io, essendo la figlia femmina lasciai la mia famiglia all'età di soli diciassette anni quando un giovanotto chiese la mia mano ai miei genitori.

Giovanni, così si chiamava, aveva un anno in più di me ed io rimasi subito colpita da lui, ma il compito di decidere spettava a mio padre e io non potevo far altro che accettare la sua decisione. Aspettò alcuni giorni, poi una mattina, mi chiamò in disparte e mi disse che potevo sposarlo, augurandomi tutta la felicità. Passarono circa due mesi, e poi finalmente il matrimonio. Ci sposammo nella chiesetta di Santa Giusta a Montenerodomo e andai a vivere con lui in una piccola casetta non lontano dalla mia famiglia.

Mi sentivo un po' spaesata, avevo molta nostalgia soprattutto dei miei fratelli con cui passavo la maggior parte della giornata; il tempo però aggiusta ogni cosa e pian piano cominciai ad abituarmi. Aiutavo mio marito nel lavoro agricolo, cucinavo e siccome non avevamo ancora dei bambini, quando non avevo nulla da fare davo una mano a mia madre ad accudire i miei fratelli. Dopo due anni, nel 1939 nacque Domenico, il mio primo figlio a cui demmo, come usanza in quel tempo, il nome di mio suocero.

Purtroppo la felicità per quella nascita non era destinata a durare a lungo, infatti non passò molto tempo che al municipio arrivò la lista delle persone che erano state chiamate per andare al fronte. In quel periodo si sentiva parlare di guerra, ma la si vedeva come qualcosa di lontano e mai nessuno si aspettava che essa avrebbe sconvolto improvvisamente tutte le nostre vite. Pregai e sperai che il nome di mio marito non fosse in quella lista maledetta, ma le mie preghiere furono vane e la mia speranza svanì definitivamente quando il podestà convocò tutti i cittadini per rendere ufficiale la notizia.

Entro due settimane, circa duecento soldati divisi in due gruppi partirono, tutti giovanissimi, ma con mogli e figli, senza sapere la loro destinazione e se e quando avrebbero potuto ricongiungersi alle loro famiglie. Mio marito parti con il secondo gruppo; come tutti gli altri non sapeva dove andasse a combattere, dato che sulla sua lettera di convocazione c'era scritto soltanto che tutto ciò che faceva lo avrebbe fatto per la patria, e avrebbe lasciato l'Italia dal porto di Pescara. Parti in una mattina piovosa, salutò me, mio figlio e i suoi genitori, e s'incamminò verso il paese insieme ad altri soldati della contrada. Dentro di me ero distrutta dal dolore, avevo paura di non riuscire a farcela; ma non potevo arrendermi, dovevo andare avanti soprattutto per mio figlio, l'unica cosa che mi dava la forza di sopravvivere.

Passarono giorni, settimane, mesi ma di mio marito non giungevano notizie; avevo perso la speranza quando un bel giorno il postino mi portò una lettera e mi disse che la mandava un certo Rossi Giovanni: era mio marito. Dato che non sapevo leggere, la feci leggere al postino: mi spiegava che era tutto a posto, dopo un viaggio estenuante durato una settimana tutti erano giunti a destinazione, erano accampati vicino alla città di Atene; la vita militare era dura, vedeva morire ogni giorno molti innocenti che, come lui, non sapevano neanche perché stavano combattendo, ma mi chiedeva di non stare in pensiero e mi prometteva che sarebbe tornato al più presto e non ci avrebbe lasciato mai più. Alla sua prima lettera ne seguirono molte altre, nelle quali mi raccontava episodi militari in cui lui o altri soldati di Montenero erano rimasti coinvolti, e alla fine di ognuna tornava a rassicurarmi sul suo ritorno ormai prossimo.

Passarono circa due anni dalla sua partenza e intanto mio figlio cresceva, ma un brutto giorno giunse la notizia che alcuni soldati avevano perso la vita in un agguato da parte del fronte nemico e il nome delle vittime era affisso in comune. Il giorno dopo mi precipitai in paese ma appena giunta davanti al municipio qualcosa mi fermò e la speranza di non trovare il nome di mio marito fra quello delle vittime, improvvisamente si trasformò in paura.

Presi coraggio e con gran felicità vidi che il suo nome non era in quella lista, ma nel mio cuore restava comunque la paura di non poterlo rivedere. Trascorsero solo alcune settimane da quella tragica notizia che subito ne giunse un'altra simile; infatti in uno scontro a fuoco Giovanni era rimasto ferito e per un periodo di tempo sarebbe ritornato a Montenero; da una parte il mio cuore batteva di gioia per il suo ritorno, dall'altra ero preoccupata, dato che non sapevo la gravità delle condizioni di mio marito.

Quando arrivò a casa però, mi resi conto che le sue condizioni non erano tanto gravi, restò a letto per alcuni giorni e pian piano cominciò a stare subito meglio. Nella sua permanenza a casa, che durò circa due mesi, non fece altro che stare con nostro figlio e raccontava di continuo tutte le brutalità che la guerra portava con sé. Sapevo che prima o poi sarebbe dovuto ritornare al fronte ma cercavo di non pensarci, godendomi tutti quel piccoli ma importanti momenti della sua breve permanenza. Purtroppo arrivò il giorno in cui dovette ripartire; la destinazione era sempre quella, con gli stessi soldati, con lo stesso nemico, ma a differenza della prima volta ora Giovanni partiva a malincuore perché aveva conosciuto il nostro bambino e non voleva abbandonarci per una seconda volta.

La vita riprese a scorrere lentamente e dopo alcuni mesi, in seguito a delle analisi mediche scoprii di essere di nuovo incinta. Non appena Giovanni mi mandò la sua ennesima lettera, subito, tramite posta, facendomi aiutare da una signora di Montenero che sapeva leggere e scrivere gli comunicai la splendida notizia. La sua risposta non si fece attendere: scrisse una nuova lettera in cui manifestava tutta la sua felicità e con gioia mi comunicava che le cose stavano migliorando e che di lì a un anno sarebbe tornato a casa. Purtroppo non fu così e all'ottavo mese di gravidanza giunse una notizia che travolse completamente la mia vita e quella di mio figlio.

Era una notte di marzo, sognai mio marito che chiedeva aiuto, poi d'improvviso la sua figura pian piano svanì davanti al miei occhi implorando di proteggere i nostri figli dalla guerra. Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto e andai a controllare se mio figlio stava dormendo; era tutto a posto, il sogno non era riferito a mio figlio, e solo quando arrivò il postino capii d'improvviso il perché di quell'incubo

(segue)