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Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (3° ed ultima parte)

Ormai non c'era più nulla da fare e tutti impauriti cercavano di nascondere più cose possibili, rammentandoci del consiglio datoci dal podestà il giorno prima; tutto ciò che ci avrebbe potuto servire lo nascondevamo con cura: c'erano persone che nascondevano perfino prosciutti e salami ben stagionati inchiodandoli sotto grandi tavole su cui abitualmente si mangiava, gli animali più piccoli come galline conigli e tacchini erano rinchiusi o in buche scavate sotto terra o dentro piccole casupole mimetizzate dal fieno che i contadini utilizzavano per nasconderle alla vista dei soldati. lo possedevo tre mucche, un vitellino e circa dieci pecore, ma purtroppo tenni per me solo una mucca per dare un po' di latte ai miei figli, mentre le altre bestie le nascosi in un grande recinto nel cuore del bosco insieme a tutti gli animali degli altri contadini di Selvoni. Tenni per me anche una stupenda giumenta nera che era indispensabile per compiere alcuni lavori agricoli, come fare della legna o trascinare il carro.

Ora che gli animali erano al sicuro, non dovevo far altro che pensare alla sicurezza dei miei figli, non avevo più neanche il lavoro perché i padroni erano stati costretti a fuggire, il palazzo signorile era stato distrutto e la ferocia dei tedeschi divampava in tutti gli angoli del paese.

All'inizio i soldati non erano visti come veri e propri oppressori, ma semplicemente come persone normalissime venute nel nostro paese solo per ordine di Hitler. Ma bastò poco tempo per renderci conto che nel male che facevano mettevano tutta la cattiveria possibile.

Era la mattina del quarto giorno dopo l'arrivo delle truppe nemiche, e mentre portavo al pascolo la mucca in un piccolo prato dietro casa, vidi una camionetta che si stava avvicinando: erano tre soldati che avevano il compito di ispezionare tutto il paese e registrare persone e animali su un apposito quaderno, che, di tanto in tanto, veniva sfogliato per evitare che qualcuno facesse il furbo, controllando volta per volta se quello che si trovava nelle famiglie corrispondeva a quello che era stato registrato in precedenza. Controllarono nella piccola stalla e annotarono tutti gli animali, gli mostrai la mucca, la registrarono, poi uno di loro ritornò nella stalla e prese il pollo più grande che avevo, cercai di ostacolarli facendo capire che mi serviva per sfamare i miei bambini, ma mi arresi quando uno di loro estrasse il fucile dalla camionetta. Aneddoti del genere erano ormai entrati nella quotidianità; ma più passava il tempo più le cose peggioravano, e la situazione degenerò completamente quando a fame le spese cominciarono ad essere i cittadini di Montenero.

Il primo a morire fu un certo Domenico, un uomo di circa quarant'anni che non riuscendo più a concepire le brutalità di quei "mostri", cercò di fuggire portando con sé uno dei suoi figli. Purtroppo venne intercettato da una pattuglia che stava ispezionando la zona, e venne fucilato insieme al figlioletto davanti agli occhi della moglie e dell'altro figlio.

Dopo quell'episodio molti altri perirono sotto le armi tedesche, chi perché di notte aveva cercato di raggiungere il paese per portare qualcosa da mangiare ai propri figli, chi perché si era rifiutato di farsi sottrarre alcuni animali, chi perché aveva avuto la sfortuna di non avere nulla da offrire ai soldati che di tanto in tanto ispezionavano tutte le famiglie del paese.

Intanto dai paesi circostanti giungevano notizie tutt'altro che rassicuranti. Infatti si diceva che ormai tutta la vallata del Sangro era sotto l'assedio tedesco, la nostra speranza era tutta nelle mani degli inglesi e di alcuni gruppi di uomini locali che facevano resistenza all'esercito nemico.

Purtroppo i problemi continuavano ad accumularsi e oltre alla miseria e alla fame che dilagava nella cittadinanza, per complicare la situazione giunse il grande freddo che si manifestò con una nevicata che durò circa una settimana agli inizi del mese di dicembre.

Nella mia piccola casetta si stava, nonostante il freddo, abbastanza bene; i problemi cominciarono però ad aggravarsi quando si cominciò a far sentire la fame. Infatti dopo che i soldati ammazzarono la mia mucca e rapirono la mia giumenta, non avevo nulla per sfamare i miei figli e fui costretta per un periodo di tempo a svegliarmi di notte, recarmi nel bosco dove era nascosto il resto del mio gregge e riportare un po' di latte e carne ai miei figli.

La fortuna non era però dalla mia parte e dopo circa due settimane i soldati scoprirono il recinto con gli animali, li sequestrarono tutti e per sempre svanì l'ultima risorsa che mi era rimasta per dar qualcosa da mangiare ai miei due bambini. Arrivò anche il Natale, ma a differenza degli altri anni non fu festeggiato regolarmente, nessuno o almeno quelli delle contrade non poterono partecipare alla Santa Messa del 24 dicembre e il giorno seguente ricordo che passai tutta la giornata a casa dei miei genitori, con i miei figli Giovanna e Domenico e con tutti i miei fratelli e sorelle.
Anche il pranzo non fu uguale a quello degli altri anni. Infatti sul tavolo c'erano solo un piccolo coniglio cucinato insieme ad un pollo e ad alcune patate; non bastò per tutti dato che eravamo 14 persone e quindi noi adulti demmo la precedenza ai più piccoli.

Dopo aver finito di festeggiare tornammo in fretta a casa per paura di essere visti; restammo seduti un po' vicino al fuoco e dopo aver raccontato ai bambini la storia di Babbo Natale e della Befana li portai a letto dando loro la buonanotte. Non sapevo, purtroppo, che era l'ultima volta che li vedevo insieme.

La notte rifeci lo stesso incubo che avevo fatto la sera prima del giorno in cui era morto mio marito, ma non diedi molta importanza al sogno e il mattino seguente mi alzai di buon'ora per andare a prendere qualche uovo e un po' di carne da mia madre. Portai con me Giovanna e lasciai il piccolo Domenico con il nonno paterno.

Era la prima volta che lasciavo uno dei miei figli a casa senza portarlo con me e, tristemente, quando tornai a casa, capii il significato di quell'incubo maledetto che per la seconda volta mi portava via uno dei miei cari. Appena giunta sulla soglia della porta vidi mio suocero che chino su mio figlio cercava di rianimarlo.

Presa da grande sconforto e angoscia quando capii che mio figlio era ancora vivo mi precipitai da Antonio, un mio vicino di casa, presi uno dei suoi cavalli e, in men che non si dica, giunsi nel paese di Quadri dove era di turno il dottore. Con altrettanta rapidità tornai insieme al dottore a Montenero, ma tutto fu inutile e persi completamente le speranze quando, mentre il dottore lo stava visitando, Domenico mi strinse forte la mano e spirò fra le mie braccia.

Il mondo mi crollò addosso, il mio povero bambino era morto, per qualcosa di inspiegabile, e solo dopo qualche giorno mio suocero mi spiegò che mentre il bambino stava giocando vicino al focolare, lo scoppio improvviso di una bomba lanciata dai tedeschi lo aveva folgorato. Attesi due giorni per celebrare il funerale, ma siccome in paese non poteva svolgersi a causa dell'occupazione tedesca fui costretta a portare il corpicino di mio figlio nel cimitero di Civitaluparella.
Partii di sera tutta sola e per non farmene accorgere feci restare a casa alcune vecchiette con mia madre e due delle mie sorelle che erano venute, come usanza, a dare l'ultimo addio a Domenico. Camminai per tutta la notte, attraversai tutto il bosco di proprietà dei Croce e al mattino, giunta nella piccola chiesetta del paese, dopo aver fatto svolgere il funerale, mi recai al cimitero dove, insieme ad una donna incontrata per strada, seppellii mio figlio e piena di sconforto e di dolore ripresi la strada per casa.
Non sono tornata mai più in quel cimitero, non ho rivisto mai più quella croce di legno sotto la quale riposava il mio adorato bambino, nato tragicamente in un periodo che gli è costato la vita, cresciuto senza un padre, al quale il destino ha voluto riservare la stessa fine.

Da quel tragico giorno pian piano le cose cominciarono a migliorare anche se l'occupazione sarebbe durata ancora qualche mese, i tedeschi cominciarono a ritirarsi, un po' braccati dal gruppo di resistenza locale che si era formato, un po' consapevoli della fine ormai imminente del regime nazista. Le manifestazioni di violenza cominciarono anch'esse a placarsi, anche se di tanto in tanto qualcuno perdeva ancora la vita per mano dei soldati tedeschi.

Era il nove maggio 1944 quando finalmente, dopo circa sette mesi di sottomissione ai commando tedeschi, la guerra abbandonò per sempre il nostro paese. Per tutta la popolazione montenerese furono i sette mesi più tragici che il popolo fino a quel tempo avesse vissuto: tutto era stato distrutto, scuole, case, chiesa erano tutte da ricostruire; molti monteneresi avevano perso la vita sotto il fuoco tedesco, la nostra dignità era stata irrimediabilmente offesa e distrutta, ma come il sole torna a splendere dopo ogni temporale, così tutti gli abitanti di Montenero tornarono pian piano alla serenità di sempre facendo grandi opere e proiettando il paese in un futuro migliore come quello che stiamo vivendo attualmente.

La guerra mi ha portato via tutto, ha lasciato dentro di me un vuoto immenso e, se sono riuscita in parte a colmarlo, è stato solo per la mia caparbietà e per la speranza, uguale a quella di tanti altri, di poter avere un giorno un futuro migliore.

( 2° premio al concorso letterario internazionale "Cesare De Titta" - Premiazione giugno 2004 - Presidente della giuria: preside Nicola Di Tullio; membri: prof. Giovanni Nativio, prof. Nicola Policella, prof: Vito Moretti, rappresentanti dei comuni di Lanciano e Sant'Eusanio del S.).