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Introduzione

Ancora oggi, a 62 anni da quel terribile autunno del ’43, sono visibili nel nostro paese  le pesanti ferite infertegli  dalle truppe germaniche. E il ricordo  delle sofferenze patite è sempre vivo nei nostri anziani che di quegli eventi bellici furono testimoni diretti e indifesi.

Per ricostruire i fatti di quel triste periodo e preservarli dal probabile oblio, questa rubrica  si prefigge di interpellare gli anziani per raccogliere le loro testimonianze  sul periodo dell’occupazione tedesca del ‘43/44,  dall’arrivo dei primi soldati all’abbandono forzato delle case da parte della popolazione, ai soprusi, alle violenze, alla distruzione sistematica e totale del paese ed  agli eccidi di concittadini inermi perpetrati dai nazisti. Si tratta, dunque, di custodire la memoria di quel periodo e consegnarla alla storia della nostra comunità locale.

Noi crediamo che ciò sia un fatto dovuto e che riguardi tutta la comunità dei monteneresi : anziani e giovani, uomini e donne residenti in loco o emigrati.

Antonio Rossi (de caquitt)

Sono arrivato in Australia il 29 di settembre 1955, dopo un viaggio della durata di un mese con la nave:Sydney, della compagnia : Flotta Lauro. In quei tempi la rotta della nave era : Perth, Melbourne, Sydney, Brisbane. Perciò dovetti sbarcare a Melbourne, la città più vicina a Adelaide, dove si trova Antonio. D'Ettorre, un nostro amico di famiglia, il quale mi aveva fatto l 'atto di richiamo. Poi da Melbourne presi il treno per andare a Adelaide. La mia prima impressione dell'Australia fu ottima La gente mi sembrava molto cortese, molto ordinata. Quando si prendeva l'autobus tutti si mettevano in fila, ciascuno aspettando il proprio turno, similmente in qualsiasi altro posto,dei servizi pubblici nessuno cercava di saltare la fila.
Per mezzo di un amico di Antonio D'Ettorre trovai un lavoro alla General Motors Holden e cominciai a lavorare il terzo giorno dopo il mio arrivo. Abitava nell stessa casa, con noi, un italiano ,operaio specializzato, nel disegno delle macchine.. Costui era proveniente da Milano e essendo uno specializzato aveva la macchina della compagnia e mi offriva il passaggio tutte le mattine per andare a lavorare. Il mio lavoro era un lavoro abbastanza duro. Con la lima dovevo rifinire il metallo, intorno all'incavo dove veniva poi inserito il vetro. Circa il 25% dei lavoratori eravamo italiani, e più del 50% erano emigranti: italiani, greci, estoni, russi, polacchi etc. non c'erano altri all'infuori della razza bianca, perché a quei tempi l' Australia non ammetteva altre razze, all'infuori di quella europea.

La casa di Rigoni

Il proprietario della casa in cui abitavo era un Italiano di nome: Giovanni Rigoni, Il quale era emigrato in Australia nel 1925 e aveva sposato una donna Inglese:"Michelle abitavano nella stessa casa altri due di Pizzoferrato: Albino e Valente e AntonioD'Alessandro di Montenero Albino era l'ultimo arrivato. Era un giovanotto di diciotto anni. Al suo arrivo, non céra più posto nella casa, all'infuori di una piccola stanzetta senza finestra e siccome lui voleva ad ogni costo stare con noi , perché c'erano i suoi paesani, si prese quella stanzetta. Come tutti i giovani Albino aveva una gran voglia di uscire e quando non lavorava, si metteva il suo vestito migliore e un bel paio di occhiali da sole, poi non sapeva dove andare, prima di tutto perché non parlava l'Inglese, a parte il fatto che era anche un po' troppo timido, allora si sdraiava sul letto col vestito e gli occhiali da sole, aspettando che qualcuno si offrisse di accompagnarlo. Nessuno aveva quasi mai voglia di uscire, ma un giorno in cui il suo paesano lo andò a chiamare per uscire , trovandolo in quella maniera , seduto sul letto, ci facemmo tante di quelle risate,perché il suo paesano gli disse:"Albino, ma qui ci vuole la candela per entrare e tu ti sei messo gli occhiali da sole!"
Ci trovavamo bene insieme, ogni tanto uscivamo per andare a giocare a carte, oppure si andava a mangiare fuori tutti insieme.

Imparare l'Inglese

Quando arrivai, la prima cosa che Michelle mi domando fu:"Antonio, vuoi rimanere in Australia, oppure vuoi ritornare in Italia?" Le dissi:"non so, tutto dipende da come andranno le cose".
Allora lei mi disse:"se vuoi rimanere in Australia, devi imparare l'Inglese. Ci sono molti emigranti dall'Italia del sud che dopo venti anni in Australia,ancora non sanno una parola d'Inglese." Il sig. Rigoni parlava sempre in Inglese con noi. Dopo otto giorni dal mio arrivo incominciai a frequentare le classi d'Inglese, due sere alla settimana . Le lezioni duravano due ore: dalle 6 alle 8pm. e noi eravamo gia stanchi dopo aver lavorato tutto il giorno.
La nostra maestra era australiana, nata da genitori italiani. Aveva circa 60 anni e aveva imparato l'Italiano in Italia e conseguito un diploma di insegnante sia in Italiano che in inglese. Lei fu per noi di grande aiuto perché ci teneva molto che noi imparassimo. bene l'Inglese. Avevo frequentato le classi d'Inglese per circa tre mesi, quando una sera tornando dal lavoro, la signora Rigoni mi chiamo dicendo:"Antonio, vieni, perché e arrivato un Italiano e non posso capire cosa vuole". Quando andai a vedere quell'úomo mi disse che lui era un amico del Sig. Rigoni, con il quale aveva lavorato insieme per nove anni nel porto di Adelaide. Si trovava di passaggio e lo voleva salutare. Allora la signora Rigoni mi disse:"Domandagli da quando tempo si trova in Australia." E quando lei senti che costui era in Australia da venti anni, gli disse: "Non ti vergogni? Antonio è qui da tre mesi e deve fare l'interprete a te che sei qui da vent'anni!" Questo esempio aumentò la mia determinazione di imparare ad ogni costo ed in seguito incominciai anche un corso d'Inglese per corrispondenza, contemporaneamente alle classi serali.

Sydney

Molto spesso soffrivo di mal di testa, che pensavo fosse causa del clima troppo caldo per me che venivo da un paese freddo. Una sera in cui andai alle lezioni d'Inglese e la maestra mi domando:"How are you?" Io le risposi che avevo spesso mal di testa e lei mi suggerì di andare a Sydney, dicendo:"Sydney e' una bella città e ha un clima mite, simile al clima mediterraneo. Io ci sono vissuta a Sydney per cinque anni e mi sono trovata molto bene con il clima. Non decidere di ritornare in Italia , prima di essere stato a Sydney." E fu cosi che decisi di venire a Sydney.
Valente aveva un suo cugino:"Giacinto "residente a Sydney , e per questo decidemmo insieme di prendere il treno e venire a Sydney. Quando arrivai a Sydney, andai a chiedere lavoro alla General Motors Holden, avendo avuto una raccomandazione dalla fabbrica di Adelaide. Fui assunto lo stesso giorno, mi misero a lavorare nella linea di montaggio: quello era un lavoro migliore di quello che facevo in Adelaide, perché era molto leggero, pero richiedeva una grande sveltezza, in quanto ogni minuto e mezzo passava una macchina sulla catena di montaggio e io dovevo avvitare 7 viti nel vano portaoggetti. All'inizio sembrava quasi impossibile, ma dopo una settimana riuscivo a farlo con la meta del tempo. Rimasi a lavorare in quella fattoria per tre anni. Nel frattempo conobbi un certo Nicola di Colledimacine, il quale lavorava nella stazione centrale ferroviaria di Sydney. Dopo poco tempo presentai un'applicazione di lavoro alla stazione centrale. Mi diedero il lavoro subito. Ho lavorato alla stazione centrale per 35 anni , fino a quando mi sono ritirato, all'età di 65 anni.

(testimonianza di Antonio Rossi)

Mariangela Rossi (d'Unghiò) ved. Alfonso Rossi (de caquitt) Australia

Mariangela Rossi, figlia di Filomena Carozza e di Antonio Rossi d'Unghiò" aveva solo 13 anni quando i nazisti occuparono Montenerodomo. Con i suoi figli Riccardo e Adele e nipoti, oggi ella vive a Sydney, Australia. Spesso racconta fatti ed eventi della sua vita legati al suo paese d'origine, Montenerodomo. Il 26 marzo 2006 ha raccontato quanto segue. " Forse avevo circa 13 anni, ricordo di aver sentito parlare a scuola di guerra .... degli italiani che combattevano in Abissinia...in Africa (1938). Uno dei nostri maestri aveva una radio che posizionava vicino alla finestra per avere una migliore ricezione e tutti gli alunni vi si avvicinavano per sentire le notizie, ma quando arrivarono i tedeschi la scuola fu chiusa e non sapevamo più nulla di ciò che avveniva nel mondo. Tutta la mia famiglia era stata fuori tutto il giorno in campagna. Ritornando a casa verso sera incontrammo alter persone che ci dissero " Attenzione, oggi sono arrivati in paese. Io, mio fratello Giuseppe e la mia matrigna fummo sorpresi e impauriti decidemmo di andare subito a Selvoni, nella masseria di mio padre. Selvoni era vicino Lago Saraceno (vicino Masseria d'Antonio), dove la mia famiglia aveva una piccola capanna, e c'era un pozzo. Stavamo lì solo per un breve periodo prima di andare a Pennadomo, alla masseria di mio fratellastro, Rocco. Ricordo che mio padre provò a tornare ogni sera con qualsiasi cibo che riuscisse a trovare. Fu molto pericoloso per lui a uscire perchè gli soldati tedeschi si trovavano ovunque. Ricordo che mia sorellastra, Maria Carozza, stava a Pennadomo ed era incinta a quell'epoca. Lei e suo marito scapparono a Roccascalegna e Peppino era nato lì. Non sono quasi riusciti perchè avevano un maiale che continuò a fare rumori... Nella masseria avevamo le lampade ad olio... un bastone sopra il fuoco teneva la pentola... ma non c'era sale... terribile!. Quando si cucina, se non c'è sale non si mangia! Tatone, lui ha formato una pietra così tutti potevano arrotare il grano. (Alcune personi addiritura arrotarono il grano in un maccinino da caffè!) Allora mangiavamo delle 'sagne. 'Sagne senza sugo! Mio padre aggiungeva i peperoni e qualunque cosa riusciva a trovare... ma sale no. Ricordo che dopo i tedeschi lasciarono Montenerodomo, Alfonso Rossi (dopo diventato mio marito) camminò a Bari per prendere il sale... ci voleva quattro giorni. Mio fratello, Giuseppe, ed io, dormivamo nel granaio... negli stessi panni, giorno e notte... per settimane. C'erano i pidocchi, senza cibo, faceva freddo... terribile... I tedeschi occuparono la casa di Concetta di bene (Casa di Dragone a Fonte della Selva) e un'altra casa (la casa di Ruseline)... a San Martino. I paesani sfollati. Dopo, alcuni paesani tornavano furtivamente alle loro case per ricuperare il cibo... Il 26 novembre, i soldati tedeschi fecero saltare con le mine il paese intero e neanche loro riuscivano a procurarsi le provviste. Quindi rubavano il cibo dei paesani... gli anziani furono costretti a portare il cibo... prima di essere uccisi. I soldati erano senza azienda. Il dottore scappò, il prete pure... non i celebrò più la messa la Messa... Alfonso Rossi aveva 16 anni. Lui era sfollato alla masseria a Montepiddochio con la sua famiglia. Per procurare il cibo, lui ed alcuni ragazzi e uomini andavano a notte nei campi, dove, scavando la terra, riuscivano a prendere le patate cultivate sotto la neve. Una notte, mentre tornava alla masseria, le pallottole da una mitragliatrice tedesca ha colpito un albero vicino, mandandolo in schegge ovunque. Un pezzo di legno colpò Riccardo (15 anni) nella spalle. È riuscito ad arrivare alla porta del hut ma morì poco dopo. Era il cugino di Alfonso, figlio di Mariantonio Rossi, e il miglior amico di Alfonso. Ricordo che tre partigiani da Pennadomo furono uccisi... c'erano i funerali... le famiglie che piangevano... La neve è rimasta fino a Marzo ed i tedeschi lasciavano le minierie nel paese. Quindi anche dopo se ne sono andati, fu ancora pericoloso... Quando non c'era più la neve, siamo tornati a Selvoni... alle capanne vicino la nostra terra... Siamo stati fuori da Montenerodomo da settembre 1943 fino a marzo 1944. Mentre i paesani tornavano, gli americano costruirono delle case e fornirono il legno e il cemento per gli altri. I paesani pagavano per il legno e il cemento e gli americani li trasportavano gratis. Un paesano capiva abbastanza bene l'inglese, e lui tradusse gratis.

Antonietta Travaglini (Francia)

Sono Antonietta TRAVAGLINI e sono in Francia da gennaio 1958. Nel 63 mi sono sposata con Spada Eligio e abbiamo avuto due figli Rita e Giuseppe che sono stati il nostro raggio di sole. E'da quasi 40 anni che desideravo ritornare in Italia ma per ragione di salute non ho mai potuto realizzare questo desiderio. Per me è stato molto duro, per non dire difficilissimo. Quest'anno, finalmente, sono riuscita a tornare con mio marito, mio figlio e la sua ragazza, mia sorella Gabriella e una delle sue figlie, Mélanie. Dopo tanto tempo, ho passato due mesi indimenticabili e anche per mio marito; abbiamo trovato il paese imbellito, piacevole e molto più confortabile. Ho potuto rivedere tutta la mia famiglia e le mie amiche, cosa voler di più. Rivedere e parlare con tutti è stato una buona cura, gente così calorosa si trova solo da noi, e per questo dico grazie a tutti con tutto il cuore. Ho potuto rivedere tanti luoghi cari al mio cuore. Poi abbiamo potuto assistere all'inaugurazione del nuovo museo a Juvanun e della "Casa del nonno", che è stato un bel seguito del vostro progetto. E' stato un vero piacere vedere come si è modernizzato il paese. Un giorno siamo andati a vedere la mostra fotografica alla scuola: Me ne aveva parlato mia sorella. La mia sorpresa è stata grande quando ho visto la foto intitolata « La Veglia »: Ho riconosciuto la nostra sorellina Giuseppina sul lettino di morte, deceduta a 9 mesi nel 1947. Sorpresa grandissima perché questa foto l'ho a casa mia e non pensavo mai confrontarmi ad essa. A quell'epoca i bambini morivano spesso e Mamma ha perso altre due bimbe. E ci penso spesso. Vedendo quella foto, mi sono sentita male. Però adesso che ci penso mi fa piacere, penso a lei e so che e lì, che il suo ricordo non è perso, e per questo ringrazio molto che l'uomo che scattò questa foto e che ve l'ha mandato per la mostra. Grazie a lui, a te Gesualdo che ti sei occupato di questo progetto insieme al Sindaco e ad altri paesani. Noi vi siamo molto riconoscenti, Con affetto un caro saluto a tutti Antonietta. (Testimonianza ricevuta per e-mail il 21 settembre 2006).

Anna D'Antonio (Australia)

Sono Anna D'Antonio e sono emigrata in Australia, a Fremantle il 22 aprile 1962 con la nave Sydney della Flotta Lauro. Le mie prime impressioni dell'Australia furono ottime: mi piaceva il clima, le case (a quei tempi) di legno, la gente molto cordiale, tollerante ed anche molto onesta. Mi ricordo che la sera si lasciava davanti al portone di casa i soldi per il lattaio e nessuno li toccava, cosa che oggi sarebbe sciocco soltanto a pensarci. Quando giunsi in Australia, le opportunità di lavoro erano scarse; ma grazie all'aiuto di mia cugina Anna, già il giorno seguente al mio arrivo, iniziai a lavorare in un calzaturificio. Il mio lavoro consisteva nel tagliare i pezzi di suola; sembrava un lavoro facilissimo, ma subito mi resi conto che non era proprio così: ci voleva una grande sveltezza e le suole erano così dure che per tagliarle, s'indolenzivano le mani. Lavoravo a cottimo e facevo molte ore di straordinario, per guadagnare di più. Le unioni sindacali non ancora esistevano, quindi non avevamo nessuna tutela dei nostri diritti. Purtroppo, questo lavoro durò poco, poiché dopo tre settimane fui costretta a licenziarmi perché compivo diciotto anni e al titolare non conveniva tenermi assunta, in quanto una quindicenne avrebbe fatto lo stesso lavoro con un salario più basso. Nel frattempo m'iscrissi ad un corso d'inglese per corrispondenza. Abitavo in casa di mio fratello in Solomon St.; in quella stessa strada risiedevano altri monteneresi, tra cui i miei zii Pasquale e Mariafedele, la quale si rese disponibile ad aiutarmi a cercare lavoro. A Fremantle non c'erano tante fabbriche: c'era l'industria della pesca, alcuni piccoli calzaturifici, delle concerie, una grande fabbrica di biscotti che si chiamava "Mills & Wares" e poi c'era naturalmente l'ospedale. Ogni mattina, io e zia Mariafedele ci alzavamo presto alla ricerca di un'occupazione e, non avendo la macchina e i soldi a disposizione, andavamo in giro a piedi. Facevamo lo stesso giro tutte le mattine perché nonostante ci dicessero: "Sorry, no vacancies", mia zia sosteneva che prima o poi avrei trovato un lavoro. Ricordo che alcuni, per non essere disturbati in continuazione, avevano scritto in italiano all'entrata dell'ufficio "non c'è lavoro", ma per mia zia questo non significava niente. Quindi, andai ad iscrivermi all'ufficio di collocamento: a quei tempi il governo australiano dava ai disoccupati uno stipendio di 30 scellini alla settimana equivalente a poco meno di 2 euro di oggi. Passarono circa due mesi e mia zia ebbe l'idea che avrei potuto trovare un'occupazione all'ospedale, come infermiera (naturalmente con una dovuta preparazione). Mia zia non sapeva né leggere e né scrivere, però aveva un intuito quasi ineguagliabile! Fu così che ella costrinse mio zio (il quale era un po' scettico) a fissare un appuntamento con la responsabile dell'ospedale. In verità il lavoro da infermiera era molto ricercato, ma rimaneva sempre la questione della lingua inglese. Non sapendo quale fosse il mio livello di preparazione scolastica, la direttrice registrò le mie competenze in materia infermieristica e le mandò a valutare presso l'università di Nedlands; dove venne stabilito che, nonostante la mia istruzione sufficiente per avviarmi ad un corso da infermiera, avrei dovuto frequentare un corso di diciotto mesi come infermiera ausiliare data la scarsa conoscenza della lingua inglese. Con la una lettera di presentazione mi recai a Mount Henry Home: un piccolo ricovero per anziani, dove iniziai il corso; l'edificio. situato nella periferia della capitale Perth. disponeva anche di un alloggio per noi ragazze che frequentavamo il corso da infermiera. Si lavorava a turni nell'ospedale e si andava alle lezioni un'ora al giorno. I primi tempi furono per me molto duri a causa della mia limitata conoscenza linguistica, inoltre, non avevo amiche, perché erano tutti australiani, e poi non mi fidavo di nessuno; per questo quando non lavoravo, mi chiudevo dentro la mia stanza e studiavo, oppure dormivo se ero stanca. Quando avevo quattro giorni consecutivi di riposo, prendevo l'auto e andavo a casa di mio fratello e dei miei zii a Fremantle. Per nove mesi fui mandata a Collie District Hospital, una cittadina di campagna, situate a circa 200 km da Perth. Alla fine dei diciotto mesi, dopo aver conseguito il diploma di infermiera ausiliare trovai lavoro presso un ospedale di Perth che si chiamava "Sir Charles Gardener Hospital", (oggi si chiama: "The University Hospital of W.A", appunto perché è diventato il più importante ospedale nel campo delle ricerche del W.A). Questi furono i tempi più duri della mia permanenza in Australia. Si dice che tutto ciò che avviene ha uno scopo, per me quest'esperienza è servita a valorizzare la vita. Devo anche dire che mi considero più fortunata rispetto a tanti altri emigranti venuti molto prima di me, le cui condizioni erano state certamente molto più disagiate.

Lucia Carozza (de girolamo) ved. di Erminio Rossi (de pulnice)

( In una lunga conversazione, Lucia mi ha raccontato la sua vita vissuta con Erminio, suo marito, soffermandosi, in particolare, sul periodo della loro emigrazione in Belgio. I fatti, le vicissitudini, le esperienze vissute sono, in parte, comuni a quelle vissute dalla maggioranza degli emigranti che negli anni 46-60 emigrarono in Belgio per lavorare nelle miniere di carbone. Furono esperienze dolorose, a volte tragiche, ma affrontate con coraggio, spirito di sacrificio e dignità. La storia di Lucia e di Erminio una storia particolare. Ne riporto una sintesi).

L'arrivo in Belgio

" Io ed Erminio ci sposammo nel 1950. In quegli anni del dopo guerra le condizioni di vita nel nostro paese erano difficilissime, la miseria regnava dappertutto, e per i giovani non c'era alcuna possibilità di un futuro migliore. L'unica speranza era l'emigrazione. Noi pensammo di andare in Belgio dove già erano emigrati alcuni compaesani.
Il 22 ottobre 1952 Erminio lasciò il paese. Con una vecchia tradotta per il trasporto di minatori raggiunse Milano dove rimase 3 giorni per i controlli medici richiesti che dovevano accertare la idoneità fisica per scendere in miniera. Era una selezione rigorosa che spaventava gli emigranti poiché se non fosse riuscita essi avrebbero dovuto far ritorno a casa. Superata la selezione, Erminio partì per il Belgio, destinazione Hauthalen una cittadina mineraria delle Fiandre orientali. Spesso ci scrivevamo ma il distacco e la lontananza erano insopportabili.
Il 22 gennaio 1956 partii anch'io per il Belgio. Fu un viaggio pieno di sofferenza e di profondo disagio fisico e morale. A Pescara presi anch'io una vecchia tradotta che veniva da Lecce carica di emigranti per il Belgio. Alla stazione di Milano ci inquadrarono come soldati e ci portarono in un vecchio palazzo vicino alla stazione. Fummo sistemati in grandi camerate, fredde e poco pulite. C'era un caminetto ma poca legna da ardere. Il pranzo era servito in una gavetta per militari. Lì rimanemmo 4 giorni.
Il 26 gennaio mattino ripartimmo per il Belgio con lo stesso treno e nella serata stessa arrivammo a Hauthalen. Alla stazione c'erano tanti minatori che aspettavano le loro mogli o famiglie. C'era anche Erminio, ma io lì per lì non lo riconobbi. Erminio era fisicamente cambiato: si vedeva che aveva sofferto. Mi sentii male. Poi ci abbracciammo, piangemmo. Mi portò a casa : una baracca di legno usata dai soldati durante l'occupazione nazista del Belgio. Il pavimento era di cemento, c'era una stufetta a carbone a forma di uovo. I vetri delle finestre erano ghiacciati. Oltre alla piccola cucina sommariamente arredata, la baracca disponeva di un bagnetto e di un camera. Quella fu la nostra casa per 3 anni.

Erminio raggiungeva la miniera in bicicletta e se era ghiacciato andava a piedi con gli altri minatori. La distanza era come tra Montenero e il cimitero di Fallascoso. Quando faceva il turno di notte io non riuscivo a dormire e quando poi sentivo la sirena dell'ambulanza – cosa che capitava spesso – ero presa dalla paura. Fin dai primi giorni cercai di ripulire a fondo la baracca, di renderla più accogliente e Erminio apprezzava il mio impegno. Spesso Erminio invitava a pranzo i suoi compagni di lavoro, abruzzesi e non abruzzesi. Erano momenti molto belli poiché si parlava e si stringevano amicizie. Per un periodo vennero a mangiare da noi i fratelli di Erminio – Angelo e Antonio -, che lavoravano anche loro in miniera. Ad essi lavavo anche i panni.
Con Erminio, o quando egli invitava a cena i suoi amici, spesso si parlava della miniera. Io ascoltavo ma non sempre capivo il significato di "quota", "taglia", "livello, "bac", "motopic", ecc....
Un giorno dissi a Erminio se potevo scendere anch'io laggiù. Mi prese sul serio. Si informò. Era possibile, ma bisognava fare la richiesta ufficiale alla direzione e dovevamo essere un gruppo di mogli/parenti di minatori. L'accordo fu raggiunto e dopo tante raccomandazioni e le precauzioni necessarie, vestite da minatori, scendemmo con l'ascensore fino a quota 800.
Fu un'esperienza terribile. Era tutto buio, mancava l'aria, un odore e un rumore insopportabili. Allora capii tante cose, soprattutto vidi dove aveva lavorato per 4 anni Erminio e dove lavorava ancora. Questo avvenne nel mese di giugno del 1956.
Il mio lavoro.
Siccome durante lo sfollamento a Pennadono avevo imparato a fare le calze e le maglie a macchina, decidemmo che avrei potuto incominciai a lavorare anch'io. Con Erminio e l'aiuto di un suo amico belga andammo a comperare una macchina in Germania, 800.000 mila lire da pagare a rate, ma il guadagno era buono e ci permetteva di fare anche qualche risparmio per la costruzione della nostra casa a Montenero, che era il nostro principale obiettivo.

Poi nel 1964 trovai un lavoro in fabbrica, in Olanda, dove lavoravano altre mogli di minatori. Partivamo da Hauthalen presto la mattina con un pulmino e tornavano tardi nel pomeriggio. Un lavoro duro ma ben retribuito e con la garanzia di tutti i diritti che spettavano ad un operaio.

Naturalmente, oltre a questo lavoro in fabbrica, curavo la casa e facevo tutti gli altri lavori necessari. Non stavo mai ferma. Con le amiche andavo a fare la spesa, fatto che mi permetteva di scambiare qualche frase in fiammingo.

Un amaro rientro a Montenero

Nel 1970 decidemmo di ritornare in paese. Avevamo finito di pagare la casa e avevamo fatto anche qualche risparmio. Inoltre, avevamo comperato i mobili per arredare la nuova casa. Cosa che facemmo puntualmente non appena arrivarono i mobili dal Belgio. Eravamo contenti, la casa era comoda e il ritorno in paese segnava la realizzazione del nostro sogno. Purtroppo la cose non andarono come avremmo desiderato. Infatti, Dopo un primo periodo di serenità , i rapporti con alcuni parenti si guastarono e la vita non fu più tranquilla, tanto che un giorno io e Erminio decidemmo di ritornare a Hauthalen dove avevamo ancora tanti amici con i quali avevamo mantenuto contatti frequenti.
(Testimonianza raccolta da Gesualdo Carozza)

I segni indelebili dell'emigrazione

Questa testimonianza racconta la storia di mio padre, Francesco TAMBURRINO o meglio conosciuto come Franchino di Giambattista. Le motivazioni di questo intervento sono due: innanzitutto perché trattandosi di mio padre, in me è presente una forte valenza affettiva, e poi perché sono sicura che in questa testimonianza (pur di carattere personale) possono ritrovarsi le esperienze vissute da molti nostri compaesani.
Mio padre nacque nel '27 e da adolescente patì le sofferenze e la miseria della guerra. Nel '48 si sposò ed ebbe le prime due bambine. Non avendo a Montenero la possibilità di garantire una sussistenza degna alla propria famiglia, egli fu costretto ad emigrare, seguendo la strada di altri compaesani.
Mio padre, andò a lavorare prima a Roma; ma, non appena si aprirono le frontiere verso altri Paesi europei, emigrò per un anno in Francia, altri quattro anni in Belgio ed infine in Svizzera.
Anche se il periodo fuori casa fu determinante per tutto il resto della vita, tuttavia, l'esperienza in Belgio fu quella più decisiva, considerato il duro lavoro da minatore che egli era "obbligato" a svolgere.
La vita da emigrante è stata una vita di umiliazioni: la prima la definirei di carattere burocratico, poiché nel momento in cui i nostri uomini chiedevano un permesso di lavoro all'estero, erano costretti a sottoporsi a severi controlli medici, stesso trattamento di riguardo non si ripeteva quando si decideva di tornare in patria, sicuramente perché considerati come pura e semplice forza produttiva e non esseri umani con una propria dignità.
A queste umiliazioni si affiancavano quelle di carattere sociale: l'essere trattati da stranieri, coabitare con altri uomini di diversa cultura e nazionalità in una medesima e misera baracca e poi, la difficoltà della lingua non solo quella nazionale ma anche i diversi dialetti parlati dai coinquilini, spesso non comprensibili.
Il lavoro in miniera già di per sé pericoloso, risultava ancor più pesante ed insopportabile per i nostri compaesani abituati all'aria aperta e al lavoro nei campi e nei boschi, dove malgrado la miseria si lavorava uniti e in allegria.
In miniera, era tutto differente: si era costretti a scendere più di mille metri sotto terra, con arnesi rudimentali e privi di ogni accorgimento di sicurezza. Le retribuzioni venivano percepite secondo due principali forme di contratto: a giornata o a cottimo; mio padre scelse la seconda poiché permetteva di guadagnare in base all'effettiva produzione e non in base al tempo impiegato, cioè: più si lavorava, più si guadagnava e prima si tornava dai propri cari.
Mio padre raccontava molti aneddoti che lasciava trasparire la vita da minatore: episodi simpatici della vita quotidiana nelle baracche, episodi di rivalsa verso chi li voleva umiliare, ed infine episodi più o meno drammatici, come la tragedia di Marcinelle. A tal proposito, spesso mi raccontava che quando accadde la catastrofe nell'otto agosto 1956, mio padre era lì presente e doveva prendere servizio con il turno che poi fu coinvolto nella tragedia.
La provvidenza divina, però, volle che per un infortunio si recasse in infermeria, dove pochi minuti più tardi sentì il rumore stridulo della sirena e, quando uscì e si diresse sul posto, assistette ad uno spettacolo terrificante: le donne attaccate ai cancelli urlavano il loro dolore con la speranza di poter nuovamente abbracciare i propri cari.
Adesso mio padre non c'e più, ma fino all'ultimo momento ha portato con sé il ricordo disperato di quei volti.
Oltre a questi spiacevoli ricordi, la miniera ha lasciato in lui segni indelebili: il più evidente è stato la silicosi, una malattia professionale che lo ha portato alla morte; inoltre, anche sul corpo ha lasciato tracce perché, quando a volte toglieva la canottiera, sulla schiena c'erano strisce violacee e mi spiegava che erano le cicatrici delle schegge del carbone, che come tatuaggi lo hanno marcato per tutta la vita.
Sono sicura, comunque, che adesso mio padre e tutti coloro che come lui hanno vissuto la stessa esperienza, si sono presi per mano ed hanno formato un cerchio intorno a noi, e stringendosi ci abbracciano, con la speranza che per noi non ci saranno più umiliazioni, miseria e né miniere; e nello stesso tempo il loro augurio è quello di continuare a parlare di ciò che essi hanno subito, tutto questo... PER NON DIMENTICARE !.
(Testimonianza raccolta da Sonia Tamburrino)
* Sonia Tamburrino. Laurea in lettere, insegnante, consigliere comunale di Monteneredomo, è membro del Gruppo di lavoro ristretto impegnato nell'attuazione del progetto " Per non dimenticare.....la nostra memoria".

Tony Rossi (Australia)

(figlio di Peppe d'unghiò e di Filomena de pelicane)

Caro Gesualdo, in questi ultimi mesi ho visitato regolarmente il vostro sito web che trovo molto interessante: chiaro nella sua struttura, semplice e lineare nell'utilizzo, interessante nei contenuti. E poi nella mia recente, breve visita a Montenero con la mia famiglia, ho potuto constatare l'interesse della gente per la vostra iniziativa. Quello che tu e i tuoi collaboratori state facendo con il progetto "Per non dimenticare...." è ammirevole : la storia di un paese è la storia dei suoi cittadini e perciò non deve essere dimenticata. Buon lavoro! Come mi hai chiesto ti invio il mio CV che puoi pubblicare sul web, se vuoi e trovi che è in sintonia con gli obiettivi del vostro progetto

Storia della mia famiglia
La storia della nostra famiglia è simile a quella di molti altri cittadini e molte famiglie di Montenerodomo che lasciarono il proprio paese dopo gli anni della devastazione della seconda guerra mondiale. Quasi tutti emigrarono perché non avevano altra scelta che cercare migliore fortuna in altri Paesi del mondo e lì ricominciare una nuova vita.
Mio padre, Giuseppe, emigrò in Australia nel 1959. Aveva 27 anni, figlio di Antonio e Filomena Rossi (d'unghiò). Antonio, mio nonno, era emigrato in America due volte nel 1908 e nel 1910. Dopo queste esperienze di emigrante egli ritornò a Montenerodomo e si sposò con Filomena, mia nonna.
Filomena morì dopo una lunga e dolorosa malattia, quando mio padre aveva solo due anni. Anche mio nonno morì qualche anno dopo, lasciando mio padre Giuseppe all'età di 14 anni. Egli fu cresciuto da Nannà Giulia, sua matrigna, e aiutato da a una famiglia amica e da amici di Montenerodomo.
Nel 1961, anch'io e mia mamma, Filomena Tamburrino, figlia di Filippo e Pierina (d'pelicane), lasciammo Montenerodomo per ricongiungerci a mio padre in Australia. In quegli anni l'Australia era in pieno sviluppo ed aveva bisogno di mano d'opera per la costruzione di infrastrutture. Il primo lavoro di mio padre fu come operaio nella costruzione della centrale idroelettrica di Snowy Mountains. Egli aveva già avuto un'esperienza di lavoro con gli esplosivi nella costruzione di gallerie e viadotti in Svizzera, quando aveva 20 anni. Mio padre è deceduto nel 2001, dopo una vita di duro lavoro e tanti sacrifici, dando a me e a mio fratello Robert tutte le migliori opportunità per una vita migliore della sua. Noi gli siamo e gli saremo per sempre grati. Un mio succinto CV
Sono nato il 26 dicembre 1951 a Montenerodomo (Chieti) Italia. Sono arrivato in Australia all'età di 9 anni.
E' difficile immaginare e raccontare il viaggio per nave della durata di 30 giorni, ignorando cosa avresti trovato nella nuova terra di accoglienza, lasciando tutto dietro le spalle per sistemarti in un ambiente totalmente nuovo. Bisognava affrontare molte difficoltà, in particolare imparare una nuova lingua, indispensabile per la vita quotidiana. Quella fu l'esperienza più dura della mia vita, che non dimenticherò mai.
Fraquentando la scuola iniziò per me un periodo migliore, più interessante ed anche più piacevole. Incominciai a praticare vari sport e a pensare agli studi futuri.
Mi orientai subito verso l'architettura e quando giunse il momento della decisione mi iscrissi alla facoltà di architettura dell' University of New South Wales.
Lì mi laureai nel 1976. Incominciai subito a lavorare privatamente come progettista di case. Questo lavoro mi piaceva e mi permetteva anche di risparmiare, il che mi consentì di viaggiare all'estero. Nel 1977 visitai il Sud America, l'Europa e l'Asia con l'obiettivo di allargare ed arricchire la mia esperienza, cercando sempre di conoscere altre culture e modi di vivere. Naturalmente mi interessava sempre e in particolare l'architettura e il suo sviluppo nei tempi.
Ritornando in Australia entrai in uno studio di architetti, PTW ( ved. PTW Capability_Italy.in Pdf ), dove acquisii una preziosa esperienza professionale sia in Australia e Nuova Zelanda che in Asia.In quel periodo fui nominato membro di diversi Comitati di organizzazioni professionali, quali The City of Sydney Planning Committee, Member of the Planning Committee, State Chamber of Commerce NSW and Property Council . Inoltre, svolsi attività di insegnamento all'Università New South Wales, come tutor e come docente nella facoltà di Architettura, in seminari di studio e di formazione per i giovani architetti. Nel 1987 fui nominato Direttore Capo dello studio di architetti PTW, il maggiore e il più vecchio studio di architetti d'Australia, diventando responsabile unico della gestione del desing per tutta l'Australia e l'Asia. In questi ultimi 28 anni di lavoro con PTW ho avuto l'opportunità di essere coinvolto in concorsi internazionali e ciò mi ha permesso di ottenere premi professionali prestigiosi, non solo in Australia ma anche in campo internazionale.
All'inizio degli anni '90, mi si presentò l'opportunità di lavorare in vari importanti progetti di masterplanning in Cina. Nel 1991, visitai lo studio di un noto architetto locale e lì strinsi un solido rapporto professionale con uno degli architetti che vi lavorava. Insieme vincemmo subito un concorso internazionale per la costruzione della sede centrale della banca di Shenzhen in Cina, Era il primo concorso internazionale vinto da un architetto australiano, di origine italiana, per la costruzione di un edificio bancario d'avanguardia in Shenzhen, tale da rivaleggiare con le sede della Hong Kong & Shanghai Bank. In Cina, paese con un tasso di sviluppo straordinariamente elevato, fu la mia prima, significativa e grande esperienza. Negli ultimi 15 anni, il mio coinvolgimento professionale si è consolidato in quel Paese.
Fin dal 1991, ho svolto il ruolo di pioniere della presenza di PTW in Cina, lavorando in joint venture con Istituti di Architettura locali, inclusi masterplaning e desing di città e di altri grandi progretti residenziali e commerciali Attualmente, PTW ha uffici principali in Pechino e Shanghai e uffici associati in Shenzhen. Le nostre esperienze di lavoro in Cina hanno raggiunto il culmine con l'aggiudicazione dei progetti per la costruzione dell' Aquatic Centre e Athletes Villaggio, in corso di realizzazione, per i Giochi olimpici del 2008.

Maria Carozza ved. Tamburrino Giuseppe

Negli anni '50 molti giovani e capifamiglia, spinti dal bisogno di pagare i debiti contratti per la ricostruzione della casa e dal desiderio di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, emigrarono verso terre lontane, con il fermo proposito di farsi raggiungere, quanto prima, dai propri familiari. La speranza di trovare altrove un lavoro sicuro ed una vita migliore leniva il dolore del distacco dalle persone e dalle cose più care.
Il 29 novembre 1955, dopo tante esitazioni e rinvii, partì per l'Australia anche mio marito, Giuseppe Tamburrino, insieme ad altri 2 monteneresi: Domenico Gentile e Antonio di "gimmett". Fu un giorno di grande tristezza per noi tutti. A causa di una forte bufera di neve quella mattina essi dovettero andare a piedi a Torricella Peligna (7 Km) per prendere la corriera per Lanciano e da lì andarono a Napoli da dove si imbarcarono per Fremantle, la città australiana di destinazione dove arrivarono la vigilia di Natale dopo ben 24 giorni di navigazione. Furono accolti da Pasquale D'Antonio, un montenerese emigrato in quella terra molti anni prima, già ben integrato e che "garantiva" per i suoi paesani nuovi immigrati. Da quella città Peppe, mi scrisse la prima lettera in cui, tra l'altro, mi diceva che era difficile trovare un buon lavoro e che pensava di spostarsi in un'altra città, Perth, dove c'erano maggiori possibilità di trovare un lavoro meglio retribuito. Dalla sua lettera si percepiva che non era contento della situazione e chiedeva notizie di noi tutti, in particolare, dei nostri 4 figli, tutti piccoli. Da Perth ricevetti una seconda lettera. Peppino aveva trovato lavoro in una miniera che si trovava tra le montagne dell'entroterra di quella regione, in mezzo al deserto. Mi rassicurava che il lavoro, benché duro, non era pericoloso: egli era addetto, con altri, a spingere i carrelli che trasportavano i detriti dall'interno all'esterno della miniera. Il fatto di aver lavorato già in una galleria a Villa Santa Maria e di stare insieme a Ghioppe di sarrà era un sollievo per lui ed anche per me e per tutta la nostra famiglia. Con quel lavoro, diceva nella lettera, poteva fare qualche risparmio e incominciare già a pensare al nostro ricongiungimento in quella terra, il sogno di noi tutti.
Un sogno, una speranza, purtroppo, stroncati inesorabilmente da un tragico incidente sul lavoro.
Peppe aveva 34 anni e ci lasciava per sempre. Io ne avevo 31, i miei 4 figli 9,7,4 e 18 mesi.
A noi, qui a Montenerodomo, la terribile notizia giunse tramite il Comune. Fu proprio mio suocero, Gigino allora vice sindaco, ad aprire la lettera in cui, in poche righe, si pregava di informare la famiglia che Peppe era deceduto tragicamente sul lavoro il giorno 11 aprile 1956, cioè neanche sei mesi dopo il suo arrivo in l'Australia. Per noi tutti fu un momento di immenso dolore. Per me e per i miei 4 figli fu la fine di tutti i sogni e i progetti fatti con mio marito e l'inizio di una vita di grandi sacrifici. A distanza di più di mezzo secolo, la sofferenza per la perdita di Peppino è sempre viva, anche se attutita dal tempo e dalla soddisfazione di essere attorniata dall'affetto dei miei figli, dei miei numerosi nipoti e pronipoti.

Con questo mio breve ricordo desidero onorare la memoria di mio marito che riposa nel cimitero di Leonora, West Australia, lontano da tutti i suoi affetti, e sottolineare l'aspetto più tragico dell'emigrazione, la morte violenta sul lavoro, che spezza ogni sogno.

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