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Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (3° ed ultima parte)

Ormai non c'era più nulla da fare e tutti impauriti cercavano di nascondere più cose possibili, rammentandoci del consiglio datoci dal podestà il giorno prima; tutto ciò che ci avrebbe potuto servire lo nascondevamo con cura: c'erano persone che nascondevano perfino prosciutti e salami ben stagionati inchiodandoli sotto grandi tavole su cui abitualmente si mangiava, gli animali più piccoli come galline conigli e tacchini erano rinchiusi o in buche scavate sotto terra o dentro piccole casupole mimetizzate dal fieno che i contadini utilizzavano per nasconderle alla vista dei soldati. lo possedevo tre mucche, un vitellino e circa dieci pecore, ma purtroppo tenni per me solo una mucca per dare un po' di latte ai miei figli, mentre le altre bestie le nascosi in un grande recinto nel cuore del bosco insieme a tutti gli animali degli altri contadini di Selvoni. Tenni per me anche una stupenda giumenta nera che era indispensabile per compiere alcuni lavori agricoli, come fare della legna o trascinare il carro.

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Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (2ª parte)

Non appena vidi la lettera dell'Esercito Italiano, pensai subito che dovesse riguardare Il ritorno di mio marito a casa, ma mi sbagliavo di grosso. Infatti, quando il postino terminò di leggerla mi si gelò il sangue dal dolore: Giovanni era morto, travolto da una mina su cui era passato sopra con alcuni soldati di Montenero. Il suo corpo, purtroppo, non ritornò più in paese poiché per la forte esplosione si era dilaniato. Da quel giorno la mia vita restò segnata per sempre dalle atrocità della guerra che una dopo l'altra si scatenò contro di me e contro tutti quelli cui volevo bene.

Restai per circa una settimana a letto distrutta dal dolore, vedevo tutto in negativo e non c'era nessuna cosa al mondo che potesse farmi capire che dovevo andare avanti. Un giorno però, accadde qualcosa che mi fece riflettere: un bambino di soli sei anni, a cui era morto il padre in guerra, rimase orfano anche della madre, morta per aver contratto il tifo, malattia che, a quei tempi, si manifestava con frequenza. Solo allora capii che dovevo andare avanti, non potevo arrendermi, dovevo combattere soprattutto per Domenico e per l'altro mio figlio che portavo in grembo, per poter garantire loro un futuro.

Trascorsero circa altre due settimane e il nove aprile del 1941 diedi alla luce una splendida bambina che chiamai Giovanna in ricordo del padre che non aveva avuto la fortuna di conoscere. Mi ritrovavo così con due bambini piccoli da crescere, senza un lavoro, e con la guerra che stava divampando in tutta Europa e che, come dicevano alcuni, prima o poi sarebbe giunta anche da noi. Non potevo permettere, però che la guerra fermasse il corso delle nostre vite e per sfamare i miei figli mi arrangiavo come potevo.

Per circa un anno andai a lavorare la terra come mezzadra alla famiglia dei Croce che allora rappresentava la massima autorità in paese. Io, insieme con altri abitanti della contrada, lavoravo dall'alba al tramonto i terreni che i padroni ci affidavano, pascolavamo i loro immensi greggi e poi alla fine del mese dividevamo tutti i raccolti a metà.

Era un lavoro che non dava molta soddisfazione poiché era sempre monotono e non eri proprietario di nulla. Ma la cosa che contava era che, grazie ad esso, molti riuscivano a sfamare i propri figli, cosa molto difficile dato che le famiglie erano composte in media dai genitori e da un numero di figli che variava da sei a nove, ma soprattutto perché la miseria da contrastare era molta. Con quel lavoro riuscivo a sfamare i miei bambini che durante la mia assenza, o rimanevano con i miei genitori o rimanevano con i miei suoceri.

La vita lentamente riprese il suo corso ma nessuno immaginava che il peggio sarebbe dovuto ancora arrivare, nessuno mai si sarebbe aspettato che la guerra era lì, proprio dietro l'angolo pronta a devastare completamente le nostre vite, già profondamente ferite dagli eventi passati.

A quell'epoca tutto era reso ancora più difficile da molte circostanze che non facevano altro che aggravare la situazione collettiva dei cittadini. Ad esempio, le condizioni igieniche non erano delle migliori, dato che in casa non c'era l'acqua, mancava l'elettricità che veniva sostituita dalla lampada a petrolio e alcune famiglie di dieci - undici componenti erano, costrette a vivere in pochi metri quadri ospitando in casa, nei casi più difficili, anche alcuni animali che non avevano alcun rifugio.
Ma l'elemento che contribuì a rendere ancor più inaspettato l'arrivo della guerra fu l'assenza di mezzi di comunicazione. Infatti le notizie arrivavano da noi con molto ritardo dato che si poteva venire a conoscenza di eventi politici solo attraverso le lettere.
Da circa un anno si sentivano voci che parlavano di truppe tedesche che stavano invadendo tutta l'Italia, ma la maggior parte della cittadinanza affermava che esse non sarebbero mai arrivate a Montenero dato che il paese non aveva nulla che potesse interessare Hitler. Ma questa affermazione, che in realtà nascondeva una vera e propria speranza, svanì completamente nell'ottobre del 1943 quando la popolazione montenerese si trovò coinvolta nei sette mesi più difficili che il paese abbia mai dovuto affrontare.

Era la mattina del 4 ottobre del 1943. Io insieme ai miei due bambini di quattro e due anni mi avviai verso il paese, dove tutti avremmo festeggiato San Francesco nella piccola chiesa di Santa Giusta. La celebrazione della Santa Messa ebbe inizio regolarmente come ogni domenica, ma tutto sembrava, fuorché una celebrazione religiosa. Tutti, infatti, non facevano altro che manifestare la propria preoccupazione per l'arrivo imminente dei tedeschi che dopo aver conquistato, senza difficoltà tutti i paesi circostanti, facevano rotta verso di noi.

A metà cerimonia, da dentro la chiesa udimmo dei rombi di motori. Uscimmo fuori incuriositi e con nostro grande stupore ci trovammo faccia a faccia con il nostro nemico: erano otto soldati tedeschi dentro due camionette e subito uno di loro che parlava un po' di italiano cercò di spiegare chi erano e perché erano giunti nel nostro paese. Non si spiegò molto bene e capimmo solo che sarebbero tornati il giorno successivo con altri soldati: ora eravamo tutti sotto il loro controllo. Qualcuno, che aveva vissuto la guerra in prima persona, non si stancava di ripeterci che gli invasori avrebbero mostrato il loro vero volto prima che avessimo avuto il tempo di capire la gravità della situazione. Il primo impatto con il nemico non fu poi così tragico, ma già dal giorno seguente tutti cominciarono a ricredersi. In seguito rientrammo tutti in chiesa per terminare la cerimonia, che si concluse in fretta senza fare la rituale processione con il Santo per le vie del paese.

Usciti dalla chiesa trovammo il podestà, che capita la gravità della situazione, in un breve discorso ci raccomandò di nascondere più provviste possibili e di abbandonare al più presto le nostre case in cerca di un rifugio sicuro per la nostra famiglia. Tutti ci affrettammo a discendere dal paese per riprendere la strada che ci avrebbe riportato verso casa. Il tragitto però era troppo lungo per i miei due bambini che non potevano correre come noi adulti; per fortuna un signore di nome Mario che abitava all'entrata del paese, vista la mia situazione, mi prestò una delle sue giumente e in meno di un quarto d'ora riuscimmo a tornare a Selvoni.

Durante il tragitto di ritorno un'altra sorpresa ci attendeva: da un colle che sovrasta la contrada vidi con grande stupore file di uomini, donne e bambini che da Palena e Colledimacine si accingevano a raggiungere il bosco per sfuggire a qualcosa di più grande di quello che tutti fino ad allora avevamo ritenuto. Solo in quel momento capii la gravità della situazione, ma nonostante tutto non mi scoraggiai, anzi ero sempre più intenta a dare un futuro migliore ai miei figli e per raggiungere questo scopo avrei fatto davvero di tutto.

Quando arrivai a casa, trovai cavalli e muli legati dietro il fienile; subito pensai che fossero i tedeschi ma quando entrai in casa mi trovai di fronte una ventina di persone disperate che, fatte accomodare da mio suocero in cucina, stavano dividendosi una scodella di fagioli. Un po' meravigliata chiesi spiegazioni: uno di loro che sembrava essere il più anziano disse di non preoccuparsi, perché sarebbero ripartiti al più presto e che cercavano solo un po' d'acqua dato che erano in viaggio dal giorno precedente. Sempre più incuriosita chiesi da dove provenivano e da cosa stavano scappando. Allora con le lacrime agli occhi, una giovane donna con due bambini in braccio iniziò a raccontarmi la sua triste vicenda: disse che provenivano da Lettopalena, lei - vedova di guerra - era rimasta, come me, da sola ad accudire i suoi due figli e non molto tempo dopo a combattere contro la fame e contro le razzie dei soldati tedeschi che in quel periodo avevano posto sotto assedio la cittadinanza, comportandosi da veri e propri padroni. Concluse raccontandomi della loro fuga verso la salvezza proponendomi di andare via con loro finché le acque non si fossero calmate; io però non volevo abbandonare i miei genitori dato che i miei fratelli erano ancora piccoli e solo con loro i miei figli erano davvero al sicuro. Solo al tramonto quando ormai la notte stava prendendo il posto del giorno, gli sfollati sicuri di non essere seguiti si rimisero in marcia proseguendo in direzione di Gamberale.

In cuor mio c'era ancora una piccola speranza di non dover affrontare il nemico, ma dopo tutto quello che stavo vivendo e dopo la straziante storia di quelle persone, ero pronta a tutto.

Il giorno seguente alla celebrazione della festa di San Francesco, d'improvviso, verso le dieci del mattino, da casa nostra e da tutta la contrada cominciammo ad udire colpi di mitragliatrici che provenivano dal paese.

seguirà 3ª parte

Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (1ª parte)

4 ottobre 1943- 9 Maggio 1944

Francesco D’Antonio è uno studente di 19 anni. Frequenta la 5a classe dell’Istituto Tecnico Commerciale a Casoli. Vive con la famiglia a Selvoni, insieme alla nonna. Questo lavoro gli è valso il 2° premio al concorso letterario internazionale “Cesare De Titta”  in giugno 2004. Ringraziamo Francesco e sua nonna Maria per questa testimonianza densa di immagini emotive e sentimenti profondi, che pubblichiamo a puntate sul nostro website

Questa è la storia di una ragazza di 61 anni fa, che non ha conosciuto le incertezze psicologiche degli adolescenti di oggi, ma è stata costretta dalla vita ad affrontare prove dolorose ed eventi tragici. Questa ragazza è mia nonna ed io sono cresciuto ascoltando i suoi racconti, come se fossero favole o fiabe con innumerevoli peripezie, ma per fortuna a lieto fine. Mia nonna è analfabeta, ma io ho voluto che la sua vicenda umana, uguale a quella di tante altre persone, non si perdesse nel nulla. I pensieri, i ricordi, i sentimenti, quindi sono i suoi, le parole –per forza di cose– sono mie.

Sono trascorsi più di «sessant'anni, ma il tragico ricordo della guerra non mi ha mai abbandonato, ho vissuto cercando di andare sempre avanti e affrontando tutte le difficoltà che essa, giorno dopo giorno, mi metteva davanti, ma al solo pensiero di quel tragico evento non riesco ancora a credere di essere riuscita a superarlo.

Ero la figlia secondogenita di una coppia di contadini che abitava a Selvoni, una contrada di Montenerodomo, paese dove attualmente risiedo, In tutto eravamo nove figli, cinque maschi e quattro femmine; tutti, dal più grande al più piccolo, aiutavamo i nostri genitori nel lavoro in campagna perché a quei tempi la scuola era frequentata solo da chi poteva permetterselo; noi non avevamo i mezzi e il privilegio della scuola, spettò solo a mio fratello Luigi, in quanto primogenito, che dovette però rinunciare a soli otto anni quando aveva appena terminato la classe seconda elementare.

Anche se molto poveri, la vita trascorreva tranquillamente, tutti ci aiutavamo a vicenda e affrontavamo i nostri problemi sempre con serenità. Trascorrevamo intere giornate nei campi lavorando dall'alba al tramonto, anche i più piccoli davano una mano cercando di imitare i grandi e infine la sera esausti per il duro lavoro andavamo a letto presto per poi svegliarci il mattino seguente di buon'ora.

Trascorsi tutta la mia infanzia e la mia adolescenza aiutando i miei genitori perché a quel tempo solo i figli maschi potevano lasciare il paese in cerca di lavoro; io, essendo la figlia femmina lasciai la mia famiglia all'età di soli diciassette anni quando un giovanotto chiese la mia mano ai miei genitori.

Giovanni, così si chiamava, aveva un anno in più di me ed io rimasi subito colpita da lui, ma il compito di decidere spettava a mio padre e io non potevo far altro che accettare la sua decisione. Aspettò alcuni giorni, poi una mattina, mi chiamò in disparte e mi disse che potevo sposarlo, augurandomi tutta la felicità. Passarono circa due mesi, e poi finalmente il matrimonio. Ci sposammo nella chiesetta di Santa Giusta a Montenerodomo e andai a vivere con lui in una piccola casetta non lontano dalla mia famiglia.

Mi sentivo un po' spaesata, avevo molta nostalgia soprattutto dei miei fratelli con cui passavo la maggior parte della giornata; il tempo però aggiusta ogni cosa e pian piano cominciai ad abituarmi. Aiutavo mio marito nel lavoro agricolo, cucinavo e siccome non avevamo ancora dei bambini, quando non avevo nulla da fare davo una mano a mia madre ad accudire i miei fratelli. Dopo due anni, nel 1939 nacque Domenico, il mio primo figlio a cui demmo, come usanza in quel tempo, il nome di mio suocero.

Purtroppo la felicità per quella nascita non era destinata a durare a lungo, infatti non passò molto tempo che al municipio arrivò la lista delle persone che erano state chiamate per andare al fronte. In quel periodo si sentiva parlare di guerra, ma la si vedeva come qualcosa di lontano e mai nessuno si aspettava che essa avrebbe sconvolto improvvisamente tutte le nostre vite. Pregai e sperai che il nome di mio marito non fosse in quella lista maledetta, ma le mie preghiere furono vane e la mia speranza svanì definitivamente quando il podestà convocò tutti i cittadini per rendere ufficiale la notizia.

Entro due settimane, circa duecento soldati divisi in due gruppi partirono, tutti giovanissimi, ma con mogli e figli, senza sapere la loro destinazione e se e quando avrebbero potuto ricongiungersi alle loro famiglie. Mio marito parti con il secondo gruppo; come tutti gli altri non sapeva dove andasse a combattere, dato che sulla sua lettera di convocazione c'era scritto soltanto che tutto ciò che faceva lo avrebbe fatto per la patria, e avrebbe lasciato l'Italia dal porto di Pescara. Parti in una mattina piovosa, salutò me, mio figlio e i suoi genitori, e s'incamminò verso il paese insieme ad altri soldati della contrada. Dentro di me ero distrutta dal dolore, avevo paura di non riuscire a farcela; ma non potevo arrendermi, dovevo andare avanti soprattutto per mio figlio, l'unica cosa che mi dava la forza di sopravvivere.

Passarono giorni, settimane, mesi ma di mio marito non giungevano notizie; avevo perso la speranza quando un bel giorno il postino mi portò una lettera e mi disse che la mandava un certo Rossi Giovanni: era mio marito. Dato che non sapevo leggere, la feci leggere al postino: mi spiegava che era tutto a posto, dopo un viaggio estenuante durato una settimana tutti erano giunti a destinazione, erano accampati vicino alla città di Atene; la vita militare era dura, vedeva morire ogni giorno molti innocenti che, come lui, non sapevano neanche perché stavano combattendo, ma mi chiedeva di non stare in pensiero e mi prometteva che sarebbe tornato al più presto e non ci avrebbe lasciato mai più. Alla sua prima lettera ne seguirono molte altre, nelle quali mi raccontava episodi militari in cui lui o altri soldati di Montenero erano rimasti coinvolti, e alla fine di ognuna tornava a rassicurarmi sul suo ritorno ormai prossimo.

Passarono circa due anni dalla sua partenza e intanto mio figlio cresceva, ma un brutto giorno giunse la notizia che alcuni soldati avevano perso la vita in un agguato da parte del fronte nemico e il nome delle vittime era affisso in comune. Il giorno dopo mi precipitai in paese ma appena giunta davanti al municipio qualcosa mi fermò e la speranza di non trovare il nome di mio marito fra quello delle vittime, improvvisamente si trasformò in paura.

Presi coraggio e con gran felicità vidi che il suo nome non era in quella lista, ma nel mio cuore restava comunque la paura di non poterlo rivedere. Trascorsero solo alcune settimane da quella tragica notizia che subito ne giunse un'altra simile; infatti in uno scontro a fuoco Giovanni era rimasto ferito e per un periodo di tempo sarebbe ritornato a Montenero; da una parte il mio cuore batteva di gioia per il suo ritorno, dall'altra ero preoccupata, dato che non sapevo la gravità delle condizioni di mio marito.

Quando arrivò a casa però, mi resi conto che le sue condizioni non erano tanto gravi, restò a letto per alcuni giorni e pian piano cominciò a stare subito meglio. Nella sua permanenza a casa, che durò circa due mesi, non fece altro che stare con nostro figlio e raccontava di continuo tutte le brutalità che la guerra portava con sé. Sapevo che prima o poi sarebbe dovuto ritornare al fronte ma cercavo di non pensarci, godendomi tutti quel piccoli ma importanti momenti della sua breve permanenza. Purtroppo arrivò il giorno in cui dovette ripartire; la destinazione era sempre quella, con gli stessi soldati, con lo stesso nemico, ma a differenza della prima volta ora Giovanni partiva a malincuore perché aveva conosciuto il nostro bambino e non voleva abbandonarci per una seconda volta.

La vita riprese a scorrere lentamente e dopo alcuni mesi, in seguito a delle analisi mediche scoprii di essere di nuovo incinta. Non appena Giovanni mi mandò la sua ennesima lettera, subito, tramite posta, facendomi aiutare da una signora di Montenero che sapeva leggere e scrivere gli comunicai la splendida notizia. La sua risposta non si fece attendere: scrisse una nuova lettera in cui manifestava tutta la sua felicità e con gioia mi comunicava che le cose stavano migliorando e che di lì a un anno sarebbe tornato a casa. Purtroppo non fu così e all'ottavo mese di gravidanza giunse una notizia che travolse completamente la mia vita e quella di mio figlio.

Era una notte di marzo, sognai mio marito che chiedeva aiuto, poi d'improvviso la sua figura pian piano svanì davanti al miei occhi implorando di proteggere i nostri figli dalla guerra. Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto e andai a controllare se mio figlio stava dormendo; era tutto a posto, il sogno non era riferito a mio figlio, e solo quando arrivò il postino capii d'improvviso il perché di quell'incubo

(segue)

Voci dalla guerra: tra storia e memoria

Le seguenti testimonianze sono state tratte dal giornale " Pro Locis", n.4 ottobre 2002, pubblicato a Gessopalena (Chieti) di cui è direttore responsabile Gino Melchiorre che ringraziamo per la cortese autorizzazione. Il prof. Melchiorre ha curato anche la pubblicazione dell'interessante volume " Voci dalla guerra".
***

Onorina Nero:
Fu il 4 ottobre 1943. In paese c'era la processione di S. Francesco d'Assisi.
Ci stavo anch'io. Ad un tratto arrivarono due tedeschi su una moto. Ci spaventammo tutti, e ci "spaliammo" di furia per il paese. La processione finì a quel punto.

Arnaldo D'Antonio
Una sera d'ottobre alcuni tedeschi picchiarono forte alla nostra porta. Mio padre non aprì. Alla casa attigua accadde lo stesso. Più in là il mugnaio aprì la porta del mulino, e scappò. Quella notte andammo a dormire dalla zia, ma dopo abbandonammo il paese e sfollammo a Casale, nella masseria Carozza. A dicembre ce ne andammo a Pennadomo. A Montenerodomo i tedeschi si stabilirono con due presidi.

Giuseppe Rossi (di genevazio).
I tedeschi avevano un magazzino nella casa di Vincenzo Porreca: ci ammazzavano le bestie rubate ai contadini. Prima dell'abbattimento delle case, in paese erano rimaste solo le donne. Gli uomini erano scappati tutti e avevano costruito delle capanne nel bosco comunale Paganello.
A fine novembre i tedeschi dissero a tutti di sgombrare le case: il banditore comunale con le trombe avvertì la gente di andare via e la gente se ne andò da un giorno all'altro portandosi le cose principali. Il paese fu distrutto tra il 23 e il 30 novembre.

Antonella D'Orazio
Mia madre, Anita Cianci, era figlia di Ottorino, maestro elementare originario di Roccascalegna. A metà dicembre il padre la prese con sé per portarla a Roccascalegna. Andando verso Casale mio nonno mise il piede su una mina e saltò in aria. Mia madre rimase illesa: solo un graffio alla mano sinistra. Vide il padre morire in quel modo. Aveva 10 anni.

Giuseppe Rossi
Il l° gennaio nevicò assai. Le macchine dei tedeschi non potevano "sficcare" a Fonticelle.
Qualche giorno dopo mio padre vide i tedeschi che mettevano le mine antiuomo lungo la strada per Salconeto. A Selvoni erano rifugiate varie famiglie tra cui quella dei Mariotti e dei Croce che da Chieti passava l'estate nel proprio palazzo a Montenerodomo. Mingo di pulinice detto "baffone" andò a Selvoni a prenderle, perché quelle persone volevano tornare a Chieti. Mio padre le avvisò delle mine, ma vollero passare lo stesso: saltarono per aria la signora Maria Aquilante, moglie di Ettore Mariotti, ed Elisa Croce. I loro corpi rimasero lì per tutto l'inverno.
Qualche giorno dopo il fatto, io e Angelo Carozza decidemmo di andare a vedere i due morti. Prima venimmo in paese: un cumulo di macerie. Andai a vedere la mia casa. Proprio di fronte al nostro vecchio negozio c'era una porta sfondata, le " lamie" erano crollate, ma non i muri.
D'entro vidi tanti morti, stesi uno sopra l'altro. C'erano anche dei bambini. Ci impressionammo, e scappammo via. Allora andammo a vedere la casa distrutta di Angolo Carozza. Nella "terrata" trovammo quattro vacche uccise. I tedeschi non potevano portarle via per la neve, e le avevano uccise. Da lì andammo poi a vedere i corpi di Maria Aquilante e Elisa Croce.
Noi paesani sfollati avevamo un segnale per avvisarci tra noi dell'arrivo dei tedeschi: nella masseria Quaiariello gli abitanti mettevano una coperta rossa se c'erano i tedeschi nelle vicinanze, un lenzuolo bianco per la via libera. Dal bosco si vedeva la masseria.

Maria Rossi (d' cherubin')
Noi stavamo sfollati nella masseria Carozza, a Casale, con molte altre famiglie. Gli uomini si nascondevano nel bosco. Arrivano 8 - 9 tedeschi, e mi chiedono: "Dov'è papà, bambina", e io rispondo: "In guerra", e mi danno una botta sulla schiena. Nel bosco avevamo le vacche, la giumenta, i porci e altri animali. I tedeschi tornarono quando gli avevano sparato al mulo. Erano indiavolati, e dalla strada sparavano continuamente verso il bosco, e colpirono Donato Di Luca che era uscito dal bosco.
Dalla masseria scapparono via Michele Rossi, Cherubino Carozza e Nicola Lalli, uno appresso all'altro. Nicola fu colpito e cadde addosso a Cherubino, che non si accorse che era morto, e gli diceva: "Non mi ti appoggiare così!".
A Montenerodomo era rimasto solo Pietro D'Antonio, anziano. Di tanto in tanto veniva il figlio Francesco a trovarlo. Un giorno Cicco stava uscendo dalla casa del padre, si trovava sulle scale, e vide i tedeschi arrivare da poco distante. Cercò di rientrare in casa, ma i tedeschi lo colpirono a morte. Aveva la famiglia sfollata a Roccascalegna. Il padre si tenne il figlio morto in casa per parecchi giorni, fino a quando vennero la moglie e i figli a cercarlo.
Tra Selvoni e Lago Saraceno vennero uccise molte persone. Tra queste Domenica Di Lullo, 31 anni, incinta, insieme a tre suoi bambini: Anna Emilia, Rocco e Rosa Di Rocco. Non s'è mai saputa la causa della loro uccisione. I loro corpi vennero composti in una stalla, e scoperti per caso da Domenico Troilo, partigiano di Gessopalena, durante una ronda tra Fallascoso e Selvoni.
I morti di Montenerodomo furono 55, da ottobre a maggio, tra i quali 11 bambini. Il paese fu distrutto totalmente.
Una relazione del Comune del 15 dicembre 1971, firmata dal sindaco pro-tempore Lorenzo D'Orazio (fu partigiano della Brigata Majella), racconta alcune vicende belliche ed enumera le case abbattute: su 400 abitazioni, ne rimasero in piedi solo 5.

Altre testimonianze
Gesualdo Carozza
Ricordo che fu tutto un accorrere confuso, agitato,chiassoso dietro la chiesa evangelica e la casa di Fedele di "Terremoto". Tutti a guardare verso " lu vuate de Cocc(e)" da dove giungeva, fino a noi, un rimbombo continuo,cupo, minaccioso, sempre più forte. Ad un tratto il rumore fu acuto, sibilante, aggressivo. Ne seguì un fragore impressionante di scoppi di bombe. La terra tremava. Dissero "stanno bombardando Sulmona". Sentimmo gli aerei tornare più volte sui loro obiettivi. Poi li sentimmo allontanarsi. L'operazione era compiuta. Noi non li vedemmo.Tutto si era svolto dall'altra parte della Maiella.
La folla che aveva "assistito" all'evento rimase muta, con lo sguardo fisso verso il Passo di Coccia. In un silenzio sgomento ci incamminammo verso le nostre case. Era la fine di settembre del 1943.

Domenica Rossi (di laurenzitt).
Nonna Albina
Mio padre, Lorenzo Rossi, aveva la mamma che non poteva camminare. Allora papà non sapeva come fare per portarla a Roccascalegna dove noi eravamo sfollati, poiché a quei tempi non c'erano mezzi di trasporto. Le persone come mia nonna dovevano andare a piedi ma lei non poteva. Mio padre era disperato di non poter portare anche mia nonna a Roccascalegna.
Si avvicinava Natale, era precisamente il 23 dicembre del 1944. Papà disse a mamma "Io vado a Montenero e se posso portare mamma ritorno, altrimenti resto con lei. Dopodomani sarà Natale, vedi tu come puoi fare con le nostre figlie".
Grazie a Dio, mio padre riuscì a portare mia nonna. E sapete come ? La caricò a dorso di un mulo dopo averla sistemata in un grande cesto ( lu paiuole), che era usato normalmente per portare il fieno.
Quando arrivò a casa con la nonna fu un grande momento. Passammo il Natale tutti contenti: anche se non c'era niente, eravamo tutti riuniti.

Nicola Rossi
I danni che porta la guerra. Storia personale
Siccome Montenerodomo era un caposaldo della linea Gustav e si sparava continuamente si trovava dappertutto del materiale bellico : proietti di cannoni, mine, bossoli di fucili e di mitragliatrici, capsule detonanti, ecc...
Un giorno mio fratello Giuseppe riportò a casa delle capsule detonanti. Io, un po' curioso e intrigante ne presi una e incominciai ad aprirla. Il vecchio Isidoro Lucci di Pennadomo, padrone della casa dove eravamo sfollati, mi disse " Nicola vai fuori a giocare con quella capsula ma stai attento che è pericoloso; può scoppiare".
Me ne andai fuori e continuai a cercare di smontare la capsula. Ad un tratto si verificò quello che il vecchio Isidoro mi aveva detto. L'ordigno mi scoppiò in mano e mi portò via le prime tre falange di tre dita della mano destra: il pollice, l'indice e il medio.
Adesso beneficio di una piccola pensione.

Nicola Rossi (Canada)
dal " Diario personale"
L'8 settembre del 1943 l'Italia smette di fare la guerra. Firma l'armistizio. Noi credevamo che la guerra fosse finita, ma invece per noi essa incominciava. Qualche giorno dopo arrivarono a nel nostro paese gli sfollati dalle altre città d'Italia perché pensavano che in un paese piccolo come Montenero la guerra non sarebbe arrivata. Invece non fu così. Un giorno essi arrivarono e andarono in giro per il paese con l'altoparlante chiedendo cose da mangiare come prosciutti, maiali,pane, vitelli, ecc... Successivamente ci dissero di abbandonare le case. Ma la gente non voleva. Ma fu costretta ad andare via con le minacce: chi si rifugiò nei boschi vicini, chi nelle masserie.
Noi, la famiglia, di Fedele Rossi detta di genevazio, avevamo una casetta alla vigna, contrada pantaniel, e andammo là. Ma io ero nel bosco vicino (paganiello) con il cavallo e due mucche e andavo nella casetta per prendere qualcosa da mangiare e qualche volta mi assicuravo che le bestie fossero ben legate e tornavo alla casetta quando pioveva o faceva troppo freddo. Le bestie le avevamo nascoste nel bosco se no i tedeschi se le rubavano.
Verso la metà di novembre, proprio quando cominciò a nevicare, fummo costretti a lasciare la casetta e a rifugiarci alla masseria di un fratello di mio padre (Fedele di scolastro). Io però dovevo restare nel bosco a fare il guardiano delle mucche e del cavallo.
Appena prima di Natale vendemmo le mucche. Ci era rimasto il cavallo chiamato "barone". Dalla vendita delle mucche ricavammo 3.000 lire e appena dopo Natale sfollammo a Pennadomo a casa di Lucci Isidoro ( detto pistilli) dove c'era da mangiare anche per il cavallo. Io andavo quasi ogni giorno a fare la legna nel bosco di un paese vicino, Buonanotte. Un giorno vennero le guardie forestali e arrestarono tutti quelli che tagliavano la legna. Noi sfollati di Montenero a Pennadomo ci ribellammo e ci lasciarono fare la legna. Io non avevo nemmeno le scarpe e Amalia, sorella di Maria, nuora di Isidoro, mi prestava le sue scarpe ed io in cambio portavo la legna anche a loro.
Qualche giorno tornavo a Montenero per cercare qualche cosa tra le macerie. Un giorno di marzo '44, che ero tornato a Montenero, vidi all'Aia di Croce alcune mucche morte lasciate dai tedeschi Erano gonfie come palloni, perché morte già da un po' di tempo, ma anche se la carne non era buona da mangiare, con la pelle si poteva fare le cioce ed io ne spellai un pezzo da una vacca abbastanza per fare le cioce per tutta la mia famiglia.. Ma quella pelle era troppo secca e scorticava i piedi e se bagnata scivolava dappertutto. Era una disperazione ma non c'era nulla da fare.

Nicola Rossi (Canada)
All'inizio di aprile i tedeschi abbandonarono Montenero. Però di tanto in tanto venivano le pattuglie. Mio padre, mia madre e mio fratello ritornarono da Pennadono per ricoprire la casetta che era stata bruciata Anche le mie sorelle, dopo alcune settimane ritornarono mentre io, Nicola, addetto al cavallo, rimasi a Pennadomo per pulire la stalla del cavallo e portare il fumier alla vigna di Isidoro che era vicino al fiume di Bomba.; non potevo fare più di 3 viaggi al giorno. Successivamente tornai anch'io alla casetta.
In questa casetta che misurava 3 x 3 metri si riunì tutta la nostra famiglia e spesso tornavamo a Montenero per preparare il materiale per ricostruire la nostra casa . E siccome il fienile era stato solo bruciato i muri non erano caduti perciò ci voleva solo il tetto. Così lo ricostruimmo e facemmo anche una "lampia" del primo piano e nello stesso tempo si andava in campagna a seminare soprattutto il granoturco.

Gesualdo Carozza
Ai vespri dell'8 settembre
La sera dell'8 settembre del 1943, celebrazione della nascita di Maria Vergine, il parroco don Angelo Rossi stava celebrando i vespri quando ad un tratto entrò in chiesa " qualcuno" che andò dritto all'altare, parlottò con il sacerdote il quale interruppe la funzione ed annunciò che la radio aveva dato la notizia che l'Italia aveva firmato l'armistizio.
Ricordo che vi fu un trambusto generale. I fedeli scoppiarono in lacrime, si abbracciavano per la gioia, pregavano ad alta voce e ringraziavano la Vergine, questo o quel santo per la "grazia ricevuta". La guerra in Grecia, Albania, ed altri fronti sarebbe immediatamente finita e i loro uomini: padri, fratelli, mariti e figli sarebbero presto ritornati a casa.
Io rimasi confuso e stupito di tanta confusione, proprio in chiesa, fatta da gente sempre rispettosa della sacralità del luogo e di una funzione religiosa. Avevo 7 anni.
Capii un po' di più e meglio quando una signora , Donna Elisa Croce, che morì poche settimane dopo uccisa da una mina, spiegò ad alta voce di cosa si trattava e concluse il suo breve intervento, invitando tutti i presenti a pregare ancora di più, poiché l'Italia avrebbe presto, molto presto, sofferto per una guerra ancora più crudele : l'esercito tedesco, di stanza in Italia, avrebbe immediatamente occupato il nostro Paese e vendicato l'affronto subito. E fu proprio così.

Antonio Di Francesco (Paccott)
"Avevo solo 15 anni quando i miei occhi videro cose terribili in seguito all'occupazione della nostra terra da parte dei tedeschi invasori........." - " Cominciarono razzie di ogni genere, di ogni bene. Poi venne l'ordine di evacuare il paese e subito dopo due squadre di guastatori ....distrussero il paese. Io e mio fratello Oreste, di qualche anno più piccolo , dall'alto di una collina a ridosso del paese e al riparo di una roccia per non farci scoprire, guardammo il triste spettacolo della distruzione del paese compresa la nostra povera casa ". ..............-
Testimonianza di Antonio estratta da un suo intervento fatto presso una scuola secondaria superiore di Pescara in occasione della celebrazione del 25 aprile 2005. Per il testo integrale dell'estratto manoscritto cliccare qui.

Giuseppina Rossi (Burricchio) in Coladonato
6 febbraio 1944.
Era una bellissima giornata di sole.
Nella nostra masseria eravamo in 15 persone; con noi c'erano i mìei genitori, i miei fratelli, alcuni sfollati di Colledimacine (famiglia Barone) ed i vicini di casa, Calabrese Giuseppe e Carluccio di Fallascoso che erano venuti a trovarci. Da lontano vedemmo arrivare due tedeschi in divisa e armati; venivano da località Feudo dove avevano le postazioni. Nessuno di noi scappò; restammo tutti in casa, in silenzio, ad aspettarli. I due arrivarono e con aria minacciosa ci fecero uscire fuori; uno ci controllava con il fucile spianato pronto a sparare, l'altro, in poco meno di mezz'ora, si fece consegnare tutte le provviste e iì ben dì Dio che tenevamo in casa per superare l'inverno ancora lungo. Riempirono 4 sacchi con pertiche di salsicce, prosciutti, formaggi, patate. In casa con noi c'era mio fratello Fedele, (1925) militare tornato da poco tempo dalla Sicilia.
I tedeschi ordinarono a Fedele di seguirlo per trasportare i viveri; mio padre Domenico li supplicò dicendo: " il ragazzo è malato, ha bisogno di cure, vengo io al posto suo! ". I due, senza nessuna pietà, non solo non lasciarono Fedele, ma anche papa Domenico fu costretto ad andare con loro insieme a quei due poveretti di Giuseppe e Carluccio che per caso si erano trovati a casa nostra. La disperazione era tanta. In lacrime, i 4 furono costretti a seguire i tedeschi. Quella sarebbe stata l'ultima volta che avremmo rivisto i nostri cari.
Le condizioni climatiche peggiorarono e dal bel sole si scatenò una violenta bufera di neve. Le
visite per noi purtroppo non erano ancora finite, di lì a poco sopraggiunsero altri due tedeschi che
ripulirono la casa di quelle poche cose ancora rimaste (coperte, lenzuola ).
Io e mamma Carmela abbandonammo la casa e fummo ospitati dalla famiglia D'Orazio(di Nuoble).
Dopo alcuni giorni tornammo alla masseria. Per prima cosa pensammo di accendere un bel fuoco, il nostro intento era quello di far notare che la casa era abitata, ma il nostro, per cosi dire piano, fallì. Non facemmo altro che attirare ancora ìe attenzioni dei tedeschi, che in poco tempo, ritrovammo ancora tra i piedi. Era la terza volta in pochi giorni. Questa volta, però, non ci trovarono! Scappammo via lungo il fosso di Colle Cupo e raggiungemmo contrada Bosco Barone presso la famiglia Pasquarelli che ci ospitò per diversi mesi.

La speranza di ritrovare i nostri cari era sempre viva in noi! Purtroppo il 15 giugno 1944, Barone Ernesto di Colledimacine, amico di famiglia, ci venne a comunicare la triste notizia del ritrovamento dei corpi senza vita di papa Domenico e di mio fratello Fedele ritrovati, esamini, abbracciati in una fossa da loro stessi scavata in località Feudo. Si consumava la nostra tragedia che tanto segnò la mia famiglia e che purtroppo non fu l'unica nel nostro paese.

Turchi Domenico (de lu bandist(e))

Quando nel novembre '43 i tedeschi fecero saltare con le mine il nostro paese la mia famiglia, appena rientrata dallo sfollamento, si sistemò in un angolo del palazzo Croce che era rimasto in piedi, a destra dell'attuale piazza Benedetto Croce.

Il 4 febbraio 1944 eravamo al primo piano interrato mentre mio padre si trovava al piano terra. C'era un vento fortissimo e verso le 8 di mattina sentimmo un rumore assordante. Quel nostro rifugio tremò tutto: c'era fumo e polvere dappertutto. I resti di una parete molto alta del palazzo rimasta in piedi era crollata e si era abbattuta proprio sul locale dov'era mio padre Angelo, il quale rimase sepolto sotto le macerie.

Avevo 11 anni, tre sorelle di cui due più piccole di me e mia madre era incinta al settimo mese. Ci portarono in una casa vicina, nel pomeriggio recuperarono il cadavere di mio padre. Il funerale fu celebrato nell'attuale casa di Nobile Santino. Poi, andammo a vivere in uno scantinato a San Martino.

Per sostenere la mia famiglia, nel 1952 andai a lavorare in Svizzera e dopo 15 anni mi sistemai a Chieti. Ultimamente ho comprato e ristrutturato una casa a Montenero.
(Testimonianza raccolta da Domenico D'Orazio, membro del GP)

Antonio di Giacomantonio (di taolio) - Selvoni

In seguito all'armistizio dell'8 settembre del '43 e dopo tante peripezie e scampati pericoli, Antonio, soldato a Cuneo, arrivò a casa a Selvoni il 15 settembre.
" A quell'epoca alla masseria "taolio" vivevano 5 famiglie, in tutto 25 persone. ... A metà ottobre un reparto tedesco si accampò a ridosso della "pusticch",occupando le baracche abbandonate dai carbonai. Da lì i tedeschi cominciarono a scendere fino alle nostre case per fare razzie di ogni genere. Ci presero prima gli animali e successivamente tutte le scorte alimentari. Facevano incursioni rapide due volte al giorno. ..... Quando distrussero il paese da noi si rifugiarono molte famiglie : in tutto eravamo 60 persone. In quei giorni da noi si rifugiò anche una famiglia ebrea polacca e presso la masseria di Antonio "di vardein" un capitano ed un maggiore dell'esercito americano, fuggiti dal campo di prigionia di Sulmona. ... Sapevamo che aiutando queste persone rischiavamo di essere fucilati. ... Il 4 febbraio 1944 decidemmo di sfollare verso Pennadomo. Fu un viaggio pericoloso e pieno di imprevisti. Con il ritiro delle truppe tedesche l'8 maggio 1944 tornammo a casa. Dopo la guerra io e Antonio di vardein fummo chiamati presso il Municipio di Montenero dove un ufficiale dell'esercito americano ci ringraziò e ci diede dei soldi per quanto avevamo fatto per aiutare i soldati americani".
(Testimonianza raccolta da Domenico D'Orazio)

Carozza Antonio (de Neld)

Nell'ottobre del 1943, quando i tedeschi ci obbligarono ad abbandonare il paese, molte famiglie, compresa la mia, si erano sistemate nelle masserie di Casale. Avevamo nascosto gli animali, scampati alle razzie tedesche, nel bosco Paganello. A novembre sapemmo che i tedeschi custodivano degli animali in una stalla all'Aia di Croce: Io, Rossi Fedele "de Carmuele" e D'ORAZIO Concezio "Ruseline" decidemmo di liberare questi animali e una notte passammo all'azione: io dovevo sorvegliare la sentinella che sostava davanti all'attuale Bar di Francesco in corso Abruzzo, Concezio la sentinella presente nell'attuale piazza Libertà a San Martino e Fedele doveva entrare nella stalla e prendere gli animali; in caso di pericolo dovevamo avvisare Fedele mediante il lancio di pietre. Riuscimmo a liberare due buoi, una mucca e un vitellino e senza far rumore lungo la mulattiera che da San Martino porta al Lago "cost d l'urie" li portammo al bosco Paganello insieme agli altri animali. Dopo un mese i due buoi furono restituiti ai legittimi proprietari, uno di Montenero e l'altro di Montebello sul Sangro (Buonanotte), mentre per la mucca e il vitellino non riuscimmo a sapere a chi erano stati rubati.
(Testimonianza raccolta da Domenico D'Orazio, membro del GP)

Il racconto di nonna Romilde

Romilde Rossi in Tamburrino, moglie di Vincenzo de Taviane (Lu Scarpare), è morta alla bell'età di novanta tre anni.
Negli ultimi anni della sua vita, nelle lunghe giornate invernali, spesso le capitava di ricordare e raccontare dei soprusi e delle angherie che la sua famiglia era stata costretta a subire dai tedeschi. Ripercorreva, con le lacrime agli occhi, quei terribili momenti indimenticabili, quando aveva visto morire i suoi cari.
Solo adesso che stiamo ricostruendo quegli anni terribili per il nostro paese e per la nostra gente, capisco che avrei dovuto essere più attento quando la nonna raccontava le sue storie, un patrimonio che mi sono lasciato sfuggire.

I tedeschi, a fine novembre del '43, fecero visita una prima volta nella loro casa, (abitavano in contrada Casale), saccheggiarono e fecero razzia di tutti i viveri e delle bestiame che avevano: maiali e galline. Il 4 dicembre 1943 i tedeschi si fregiarono di un gesto disumano e orribile: incontrarono lungo la strada per la via del lago la sorella Erminia, una donna poco "fortunata" che tornava in paese per racimolare qualcosa da mangiare per la famiglia. Tre di loro, con ferocia inaudita, la picchiarono, la violentarono e l'abbandonarono esamine lungo la strada. Nel dolore e nell'incredulità per un gesto così crudele, la povera Erminia fu tumulata nella cappella della chiesetta della contrada, essendo molto pericoloso raggiungere il cimitero del paese.

Qualche giorno dopo, precisamente l'8 dicembre, i tedeschi tornarono nella contrada. Il loro obiettivo era quello di distruggere tutte le case, iniziando proprio dalla chiesetta; "Uccisero mia sorella - diceva nonna - per la seconda volta". Essi arrivarono anche al casolare, fecero uscire tutti fuori poiché il loro intento era di farlo saltare. La mamma Maria, già fortemente provata per la perdita della cara figlia, non volle uscire. Il suo cuore non riuscì a resistere e morì d'infarto, in casa, sotto gli occhi di tutti e dei tedeschi che, a quel punto, " impietositi " lasciarono la casa in piedi.

Alcuni giorni dopo, furono recuperati i resti di Erminia e sistemati nella stessa bara della mamma Maria. Le salme furono seppellite nella campagna vicino alla masseria di Rossi Antonio di Galizio. Dopo circa 30 anni, nonna Romilde fece riportare le salme nel cimitero del paese.

(Testimonianza ricostruita da Angelo Piccoli, nipote di nonna Romilde).

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