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Storia di una famiglia di Selvoni di Montenerodomo (2ª parte)

Non appena vidi la lettera dell'Esercito Italiano, pensai subito che dovesse riguardare Il ritorno di mio marito a casa, ma mi sbagliavo di grosso. Infatti, quando il postino terminò di leggerla mi si gelò il sangue dal dolore: Giovanni era morto, travolto da una mina su cui era passato sopra con alcuni soldati di Montenero. Il suo corpo, purtroppo, non ritornò più in paese poiché per la forte esplosione si era dilaniato. Da quel giorno la mia vita restò segnata per sempre dalle atrocità della guerra che una dopo l'altra si scatenò contro di me e contro tutti quelli cui volevo bene.

Restai per circa una settimana a letto distrutta dal dolore, vedevo tutto in negativo e non c'era nessuna cosa al mondo che potesse farmi capire che dovevo andare avanti. Un giorno però, accadde qualcosa che mi fece riflettere: un bambino di soli sei anni, a cui era morto il padre in guerra, rimase orfano anche della madre, morta per aver contratto il tifo, malattia che, a quei tempi, si manifestava con frequenza. Solo allora capii che dovevo andare avanti, non potevo arrendermi, dovevo combattere soprattutto per Domenico e per l'altro mio figlio che portavo in grembo, per poter garantire loro un futuro.

Trascorsero circa altre due settimane e il nove aprile del 1941 diedi alla luce una splendida bambina che chiamai Giovanna in ricordo del padre che non aveva avuto la fortuna di conoscere. Mi ritrovavo così con due bambini piccoli da crescere, senza un lavoro, e con la guerra che stava divampando in tutta Europa e che, come dicevano alcuni, prima o poi sarebbe giunta anche da noi. Non potevo permettere, però che la guerra fermasse il corso delle nostre vite e per sfamare i miei figli mi arrangiavo come potevo.

Per circa un anno andai a lavorare la terra come mezzadra alla famiglia dei Croce che allora rappresentava la massima autorità in paese. Io, insieme con altri abitanti della contrada, lavoravo dall'alba al tramonto i terreni che i padroni ci affidavano, pascolavamo i loro immensi greggi e poi alla fine del mese dividevamo tutti i raccolti a metà.

Era un lavoro che non dava molta soddisfazione poiché era sempre monotono e non eri proprietario di nulla. Ma la cosa che contava era che, grazie ad esso, molti riuscivano a sfamare i propri figli, cosa molto difficile dato che le famiglie erano composte in media dai genitori e da un numero di figli che variava da sei a nove, ma soprattutto perché la miseria da contrastare era molta. Con quel lavoro riuscivo a sfamare i miei bambini che durante la mia assenza, o rimanevano con i miei genitori o rimanevano con i miei suoceri.

La vita lentamente riprese il suo corso ma nessuno immaginava che il peggio sarebbe dovuto ancora arrivare, nessuno mai si sarebbe aspettato che la guerra era lì, proprio dietro l'angolo pronta a devastare completamente le nostre vite, già profondamente ferite dagli eventi passati.

A quell'epoca tutto era reso ancora più difficile da molte circostanze che non facevano altro che aggravare la situazione collettiva dei cittadini. Ad esempio, le condizioni igieniche non erano delle migliori, dato che in casa non c'era l'acqua, mancava l'elettricità che veniva sostituita dalla lampada a petrolio e alcune famiglie di dieci - undici componenti erano, costrette a vivere in pochi metri quadri ospitando in casa, nei casi più difficili, anche alcuni animali che non avevano alcun rifugio.
Ma l'elemento che contribuì a rendere ancor più inaspettato l'arrivo della guerra fu l'assenza di mezzi di comunicazione. Infatti le notizie arrivavano da noi con molto ritardo dato che si poteva venire a conoscenza di eventi politici solo attraverso le lettere.
Da circa un anno si sentivano voci che parlavano di truppe tedesche che stavano invadendo tutta l'Italia, ma la maggior parte della cittadinanza affermava che esse non sarebbero mai arrivate a Montenero dato che il paese non aveva nulla che potesse interessare Hitler. Ma questa affermazione, che in realtà nascondeva una vera e propria speranza, svanì completamente nell'ottobre del 1943 quando la popolazione montenerese si trovò coinvolta nei sette mesi più difficili che il paese abbia mai dovuto affrontare.

Era la mattina del 4 ottobre del 1943. Io insieme ai miei due bambini di quattro e due anni mi avviai verso il paese, dove tutti avremmo festeggiato San Francesco nella piccola chiesa di Santa Giusta. La celebrazione della Santa Messa ebbe inizio regolarmente come ogni domenica, ma tutto sembrava, fuorché una celebrazione religiosa. Tutti, infatti, non facevano altro che manifestare la propria preoccupazione per l'arrivo imminente dei tedeschi che dopo aver conquistato, senza difficoltà tutti i paesi circostanti, facevano rotta verso di noi.

A metà cerimonia, da dentro la chiesa udimmo dei rombi di motori. Uscimmo fuori incuriositi e con nostro grande stupore ci trovammo faccia a faccia con il nostro nemico: erano otto soldati tedeschi dentro due camionette e subito uno di loro che parlava un po' di italiano cercò di spiegare chi erano e perché erano giunti nel nostro paese. Non si spiegò molto bene e capimmo solo che sarebbero tornati il giorno successivo con altri soldati: ora eravamo tutti sotto il loro controllo. Qualcuno, che aveva vissuto la guerra in prima persona, non si stancava di ripeterci che gli invasori avrebbero mostrato il loro vero volto prima che avessimo avuto il tempo di capire la gravità della situazione. Il primo impatto con il nemico non fu poi così tragico, ma già dal giorno seguente tutti cominciarono a ricredersi. In seguito rientrammo tutti in chiesa per terminare la cerimonia, che si concluse in fretta senza fare la rituale processione con il Santo per le vie del paese.

Usciti dalla chiesa trovammo il podestà, che capita la gravità della situazione, in un breve discorso ci raccomandò di nascondere più provviste possibili e di abbandonare al più presto le nostre case in cerca di un rifugio sicuro per la nostra famiglia. Tutti ci affrettammo a discendere dal paese per riprendere la strada che ci avrebbe riportato verso casa. Il tragitto però era troppo lungo per i miei due bambini che non potevano correre come noi adulti; per fortuna un signore di nome Mario che abitava all'entrata del paese, vista la mia situazione, mi prestò una delle sue giumente e in meno di un quarto d'ora riuscimmo a tornare a Selvoni.

Durante il tragitto di ritorno un'altra sorpresa ci attendeva: da un colle che sovrasta la contrada vidi con grande stupore file di uomini, donne e bambini che da Palena e Colledimacine si accingevano a raggiungere il bosco per sfuggire a qualcosa di più grande di quello che tutti fino ad allora avevamo ritenuto. Solo in quel momento capii la gravità della situazione, ma nonostante tutto non mi scoraggiai, anzi ero sempre più intenta a dare un futuro migliore ai miei figli e per raggiungere questo scopo avrei fatto davvero di tutto.

Quando arrivai a casa, trovai cavalli e muli legati dietro il fienile; subito pensai che fossero i tedeschi ma quando entrai in casa mi trovai di fronte una ventina di persone disperate che, fatte accomodare da mio suocero in cucina, stavano dividendosi una scodella di fagioli. Un po' meravigliata chiesi spiegazioni: uno di loro che sembrava essere il più anziano disse di non preoccuparsi, perché sarebbero ripartiti al più presto e che cercavano solo un po' d'acqua dato che erano in viaggio dal giorno precedente. Sempre più incuriosita chiesi da dove provenivano e da cosa stavano scappando. Allora con le lacrime agli occhi, una giovane donna con due bambini in braccio iniziò a raccontarmi la sua triste vicenda: disse che provenivano da Lettopalena, lei - vedova di guerra - era rimasta, come me, da sola ad accudire i suoi due figli e non molto tempo dopo a combattere contro la fame e contro le razzie dei soldati tedeschi che in quel periodo avevano posto sotto assedio la cittadinanza, comportandosi da veri e propri padroni. Concluse raccontandomi della loro fuga verso la salvezza proponendomi di andare via con loro finché le acque non si fossero calmate; io però non volevo abbandonare i miei genitori dato che i miei fratelli erano ancora piccoli e solo con loro i miei figli erano davvero al sicuro. Solo al tramonto quando ormai la notte stava prendendo il posto del giorno, gli sfollati sicuri di non essere seguiti si rimisero in marcia proseguendo in direzione di Gamberale.

In cuor mio c'era ancora una piccola speranza di non dover affrontare il nemico, ma dopo tutto quello che stavo vivendo e dopo la straziante storia di quelle persone, ero pronta a tutto.

Il giorno seguente alla celebrazione della festa di San Francesco, d'improvviso, verso le dieci del mattino, da casa nostra e da tutta la contrada cominciammo ad udire colpi di mitragliatrici che provenivano dal paese.

seguirà 3ª parte

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