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La guerra

Molto robuste, resistettero al terremoto del 23 settembre 1933 che causò molta paura tra la popolazione, ma un solo crollo, però non poterono opporsi al tritolo tedesco nell'autunno del 1943, quando anche Montenerodomo subì la sorte dei paesi attraversati dalla "Linea Gustav", la linea difensiva tedesca che bloccò per sei mesi l'avanzata degli anglo-americani e che, estendendosi dal Sangro al Garigliano, passava attraverso il Colle dell'Irco, Verlinghiera, il centro abitato di Montenerodomo, i Colli dei Ferrari, Montepidocchio e Pennapizzuto.
Le prime avanguardie tedesche giunsero a Montenerodomo il 4 ottobre 1943. Il 19 dello stesso mese, disubbidendo al bando di reclutamento e collaborazione con le truppe di occupazione e per sfuggire alla deportazione, gli uomini validi si diedero alla macchia nascondendo il bestiame nei boschi Paganello e Monte di Maio, per impedirne la razzia.
") che ospitavano il presidio tedesco.
Nel mese di novembre le donne, i vecchi e i bambini, dopo aver subito ruberie di ogni genere, nonché la razzia dei suini e del pollame e dopo essere stati costretti ad abbandonare le proprie case, assistettero inermi alla distruzione dell'intero abitato per mano dei guastatori tedeschi. Il 23 novembre 1943 le case del Rione San Vito, il giorno successivo quelle del Rione opposto, furono fatte saltare in aria. Le più robuste, che resistettero alla prima ondata distruttrice, furono definitivamente abbattute l'8 dicembre.
Le povere case dei contadini ed le maestose residenze dei Croce e dei De Thomasis subirono la stessa sorte. L'una dopo l'altra, al brillare delle mine, si ripiegavano su se stesse sgretolandosi tra una pioggia di calcinacci ed una nuvola di polvere.
Il paese fu ridotto a un cumulo di macerie. Rimasero in piedi, oltre alla chiesa madre, che subì il solo crollo della cupola, e a quella di San Vito con la casupola addossata al suo fianco destro, solamente alcune case in località Fonte della Selva (la casa di "Dragone") e a San Martino (le case di "RusilinoUguale sorte toccò alle case sparse di Contrada Casale, dove fu distrutta anche la chiesetta di campagna della famiglia Croce, e a quelle di Contrada Marangola, dove la masseria Coletti fu distrutta con il tritolo, mentre le masserie Nobile e Gialluca furono incendiate. Le contrade del versante occidentale, invece, rimasero indenni. {mosimage}
Per i Monteneresi furono mesi da incubo.
Senza più casa, attanagliata dalla fame e dalla paura delle pattuglie tedesche che rastrellavano il territorio e sparavano su chiunque si trovasse allo scoperto, la popolazione sfollata, abbandonati i casolari di Contrada Marangola e i rifugi di fortuna costruiti nei boschi Paganello e San Leo, ormai non più sicuri, cercò riparo al di là della linea del fronte. Ad eccezione di poche famiglie che ripararono a Roccascalegna o che raggiunsero le regioni meridionali già liberate dagli Alleati, la quasi totalità dei Monteneresi, con le poche masserizie e i capi di bestiame scampati alle razzie, nelle gelide notti di inizio dicembre illuminate a giorno dai razzi tedeschi, sfuggendo ai campi minati e al fuoco dei cecchini appostati sulle alture, attraversato il torrente San Leo, gonfio e impetuoso come non lo era mai stato per le imponenti piogge autunnali, raggiunse Pennadomo, dove trascorse il freddo e nevoso inverno del 1944.
Non tutti gli sfollati riuscirono in quest'impresa. Una dozzina di loro perse la vita sulle infangate mulattiere e sui viottoli di Casale, Fonte Maggiore, Colli, Ortolani e Passo Maccarone, colpiti dai cecchini o dilaniati dalle mine antiuomo che i tedeschi avevano disseminato con cura lungo la linea del fronte.
{mospagebreak}Tra la popolazione rimasta nelle contrade si organizzò spontaneamente un'efficace resistenza, dapprima solo passiva, con l'occultamento delle derrate alimentari, quindi via via sempre più efficace con l'esecuzione di numerosi atti di sabotaggio che inasprì la condotta delle truppe di occupazione. Iniziarono i rastrellamenti, le torture e i massacri della popolazione inerme.
Nel frattempo, a Casoli, il 5 dicembre 1943, si era costituito il "Corpo Volontari della Maiella", che, dal mese successivo, cominciò ad impegnare i tedeschi, attestati sulla "Linea del Sangro", con fulminee azioni di guerriglia.
Il primo febbraio l'ottavo plotone della "Maiella" raggiunse e occupò prima Torricella Peligna e quindi Fallascoso. Osteggiati dalla popolazione civile e minacciati dai partigiani, i tedeschi reagirono furiosamente. Il giorno dopo, all'alba, misero a ferro e fuoco le contrade Casale e Verlinghiera (quelle situate in prossimità della linea del fronte) rastrellandone la popolazione. Coloro che opposero resistenza o che tentarono la fuga furono fucilati sul posto. Le donne e i bambini furono, invece, condotti in paese, dove, all'interno di una casa semidiroccata di Rione San Martino, vennero barbaramente trucidati. Alla fine della giornata le vittime di quella che è rimasta nella memoria popolare come "la strage della Candelora" furono 12. Cinque di esse erano bambini di età compresa tra i 7 e i 13 anni.
Dal 6 febbraio i rastrellamenti (e, di conseguenza, i massacri) interessarono il territorio compreso tra Montenerodomo e Palena. Due giorni prima, infatti, era stato liberato Pizzoferrato e i tedeschi, presi ormai tra due fuochi, cercarono di assicurarsi un sicura via di ritirata.
Le tormente di neve del rigido inverno abruzzese impedirono, per oltre un mese, lo svolgimento di azioni militari, che ripersero il 23 marzo quando i tedeschi attaccarono, ma senza successo, le posizioni tenute dai partigiani a Fallascoso. Il giorno dopo tre giovani monteneresi, catturati in Rione San Vito, riuscirono a fuggire, mentre a piedi venivano condotti al Comando tedesco di Palena, dopo aver ucciso, in Contrada Selvoni, i due soldati tedeschi che li scortavano. Pervase da furore, le soldataglie tedesche, nelle due notti successive, rastrellarono l'intero territorio e, come belve assetate di sangue, massacrarono senza pietà tutti coloro che, sorpresi nel sonno, ebbero la sventura di imbattersi in quelle orde sanguinarie. Nessuno fu risparmiato, neanche i bambini. Undici furono le vittime di quelle due notti di sangue. L'episodio più aberrante si verificò in Contrada Vallone Cupo, dove in una stalla furono uccisi una donna incinta ed i suoi tre figlioletti di 3, 7 e 10 anni. La macabra scoperta fu fatta da Domenico Troilo, comandante dell'ottavo plotone della Brigata Maiella, in servizio di pattugliamento la notte del 25 marzo 1944 in Contrada Vallone Cupo, che, in un articolo apparso recentemente sulla stampa, così racconta quel toccante episodio:

"...Dopo quattro ore di cammino e prima dell'attraversamento del Vallone Cupo... facemmo sosta vicino ad una casupola per stabilire sul terreno le modalità dell'attacco. Dalla partenza da Fallascoso... non fumavo, con un calcio aprii la porta della stalla ed accesi un cerino. Mi si presentò uno spettacolo allucinante che istintivamente mi fece richiudere la porta sgangherata. Riapertala, poco dopo, e riacceso un cerino mi trovai una donna in camicia da notte tutta insanguinata con tre bambini nelle stesse condizioni a lei abbracciati morti ammazzati dai tedeschi, distesi come se dormienti su un materasso matrimoniale che occupava la piccola stalla. La stranezza del quadro illuminato da altri cerini mi lasciò nella mente la visione sorridente di persone passate dalla vita alla morte in assoluta serenità. ... Richiusi con delicatezza la portoncina sgangherata e mi segnai con il segno della croce".

Quando, il 5 maggio 1944, sopraggiunsero le truppe alleate, i civili morti per gli eventi bellici erano stati 55; 17 furono, invece, i nostri giovani militari caduti o dispersi sui vari fronti di guerra.
Soltanto il gruppo dei partigiani monteneresi (in numero di 7), che, arruolati nella Brigata Maiella, si fece onore combattendo al fianco degli alleati a Cà di là (Modigliano), Monte Mauro, Monte Volpe e Imola, non subì perdite, rientrando in paese dopo aver raggiunto Castel San Pietro, alle porte di Bologna.
{mosimage}Per l'attività patriottica alla lotta per la resistenza il gonfalone del comune di Montenerodomo, con D.P.R. 26 giugno 1975 n. 319, è stato decorato con la croce di guerra al valor militare con la seguente motivazione: "Durante sette mesi di occupazione nazifascista, sostenne coraggiosamente le forze partigiane subendo, per la sua attività patriottica, enormi sacrifici culminati nella distruzione dell'intero abitato.
Reagendo con fierezza alla barbara tracotanza dell'oppressore offrì un valido contributo di sangue generoso, di combattenti, di sacrifici e di valore alla causa della libertà della patria.
Zona di Montenerodomo, novembre 1943-maggio 1944".

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