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Il 1900

All'inizio del XX secolo, l'esosità sempre maggiore dei "nuovi padroni" a cui si aggiungeva la scarsità dei raccolti, insufficienti per il sostentamento familiare, costrinse molti contadini ad abbandonare la terra e a cercare miglior sorte emigrando negli Stati Uniti (Pennsylvania, West Virginia, Ohio) e in Argentina. E, tornando al paese natale, con i risparmi accumulati in anni di duro lavoro, gli emigranti comprarono piccoli appezzamenti di terreno e ampliarono l'area fabbricata del paese, fino ad allora limitata al "Rione del Colle", costruendo nuove case, soprattutto nel Rione San Vito e, in minima parte, in Rione San Martino.
Nel corso della Grande Guerra anche Montenerodomo dovette versare il proprio tributo di sangue.
Furono 28 i giovani Monteneresi che persero la vita, combattendo sulle giogaie del Carso e sulle sponde del Piave, o per malattie contratte durante il servizio militare.

Nel descrivere il paese come gli appariva nel 1919, Benedetto Croce così si esprimeva: "Dopo i tempi borbonici e il sindacato di Onorato Croce...non può dirsi che il paese sia di molto progredito; sebbene la sua area fabbricata si sia ampliata d'assai e la popolazione...abbia raggiunto nell'ultimo censimento il numero di circa due migliaia e mezzo. Il comune è stato d'allora amministrato dal ceto contadinesco, che a nessun'opera pubblica ha provveduto, neppure all'acquedotto; sicchè l'acqua si attinge ancora e si trasporta a schiena di muli da una fontana nel basso del monte".
Ma, pur nella sua umiltà, il ceto sociale che aveva amministrato il paese nei primi decenni del secolo non era rimasto inerte e qualche progresso era stato conseguito. Infatti, nel 1910 fu installato il telegrafo, mentre nel 1912 il paese fu raggiunto dalla corrente elettrica, che dall'anno successivo venne distribuita (in esclusiva fino al 1925 e successivamente in concorrenza con un'altra società paesana) dalla ditta Mariotti e che, dal 1914, alimentò anche un mulino per la macinazione dei cereali situato in prossimità di quella che ancora oggi chiamiamo "curva del mulino".
L'acqua potabile, invece, veniva ancora attinta dalla fontana "del Lago", ma risalivano al 1910 le prime pratiche per provvedere il paese di un acquedotto, anche se, dopo tante traversie e diatribe con il comune di Pizzoferrato, proprietario delle sorgenti da captare, solo nel 1925 ebbero inizio i lavori per la sua costruzione, che vennero completati quattro anni dopo. L'acqua, proveniente dalla sorgente La Ria, poteva essere attinta da tre fontane pubbliche ubicate nelle tre piazze del paese: Santa Giusta (nella sede dell'attuale fontana), San Vito (nell'angolo sud-ovest) e San Martino (nel lato sud). Negli anni '30, poi, ne venne costruita una quarta, nel cuore del borgo antico, nei pressi della casa dei De Thomasis

Il paese durante il ventennio
Il nucleo principale del paese, come nel Medioevo, era abbarbicato sull'alta rupe e attorniava una piazzetta su cui si affacciavano la chiesa matrice e la casa comunale, sede anche dell'Ufficio postale e della scuola elementare, e dove si fronteggiavano le imponenti residenze dei Croce e dei De Thomasis.

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Da questa piccola piazza si dipartivano quattro strade: due in salita e altrettante in discesa. Le prime, con pavimentazione in selciato di pietra, costeggiando da ambo i lati la casa comunale, s'inerpicavano "in cima alle colle" dividendosi in un dedalo di vicoli con identica pavimentazione e raccordandosi con le strade in discesa che avevano un andamento opposto: una, pavimentata fino a Santa Giusta con mattonelle in catrame, conduceva alle poche case del Rione San Martino; l'altra, sempre in selciato, costruita in gran parte a scalinata, si immetteva nella piazza di San Vito.
Il paese era anche provvisto di un sistema fognante che convogliava fuori dall'abitato le acque di scolo. Era costituito da due bracci che, partendo dalla medesima piazzetta e ricalcando le due strade in discesa, terminavano l'uno in prossimità di San Vito e l'altro poco oltre la distrutta chiesa di Santa Giusta.{mospagebreak}
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La popolazione era dedita principalmente all'agricoltura. La pastorizia non era più praticata come un tempo e l'allevamento del bestiame era limitato al fabbisogno familiare. Fiorente era l'artigianato rappresentato da ferrai, falegnami, calzolai, sarti, scalpellini e muratori.
Il paese disponeva di due filiali bancarie, di una locanda, un affittacamere, cinque osterie, tre empori commerciali, due macellerie e due mulini (prima dell'arrivo dell'elettricità i cereali venivano macinati con mulini ad acqua che, in numero di sette, erano ubicati nelle località Mulinelle, Acquevive, Casale e Schiera oltrechè lungo il corso del Parello). C'erano, inoltre, due trebbiatrici e perfino una ditta di trasporto merci con veicolo da traino. A metà del corso del torrente San Leo, in località oggi denominata "Tre Colori", infine, era presente una sorgente di acqua sulfurea presso la quale si effettuavano cure termali.
Un tale Antonio Rossi, il cui soprannome era quello della località, arguto ed intraprendente proprietario della sorgente, attorno alla metà degli anni '20 costruì nelle immediate vicinanze della pozza dove "risorgeva" l'acqua sulfurea un rudimentale centro termale frequentato, oltre che dai monteneresi, anche da gente proveniente dai paesi viciniori. La notorietà dello stabilimento divenne un momento economico per le famiglie dell'intera zona che dovettero organizzarsi per la ricettività dei forestieri frequentatori del centro termale.
Le proprietà curative dello zolfo venivano sfruttate riscaldando all'aperto, in grossi calderoni, il fango terapeutico prelevato dalla pozza che veniva poi applicato sul corpo dei bagnanti. L'iter curativo si concludeva con il risciacquo effettuato all'interno di apposite vasche. Inizialmente il tutto si svolgeva all'interno di una capanna in legno con copertura in paglia, sostituita, in seguito, da due casolari: uno adibito all'applicazione del fango, l'altro al risciacquo.

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La seconda domenica di settembre si festeggiava il Santo Patrono, San Fedele da Sigmaringa, che dal secolo precedente aveva sostituito San Giobbe, e per le strade del paese si teneva anche una piccola fiera. Ben più importante era, però, la fiera dell'8 maggio (la fiera di San Michele) che sostituiva quella che anticamente si svolgeva il giorno precedente, attorno all'abbazia di Santa Maria del Palazzo.
Crollata la chiesa di Santa Giusta (1911), si officiava messa solo nella chiesa matrice di San Martino. Dal 1906 e fino agli anni '20 nel Rione San Martino fu in funzione anche una chiesa evangelica della Società Battista, che, però, non ebbe mai molti praticanti.
Le case, a più piani, in pietra locale con travature in legno e copertura in coppi, erano costruite affiancate le une alle altre per migliore difesa dai rigori invernali. Prive di balconi e di terrazzi, inadatti a sopportare il peso della neve sempre abbondante nei lunghi inverni, e con finestre strette, avevano quasi tutte la facciata realizzata con pietre squadrate e scalpellate. All'interno le stanze avevano pareti stuccate con gesso proveniente da Gessopalena e pavimenti realizzati in legno o, per le case più signorili, in mattoni fabbricati nella vicina fornace del "Fosso della Pincera". A pianterreno quasi sempre erano ubicate le stalle che ospitavano gli animali da pascolo e da cortile. Quasi nessuna abitazione, infine, era fornita di servizi igienici.

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