Agli Aragonesi, cui andò il Regno di Napoli dal 1442, si devono due importanti riforme in materia fiscale: il riordino della Dogana delle pecore (Dohana menae pecudum Apuliae) e la tassazione per fuochi.
La prima, introdotta l'1 agosto 1447 per venire incontro alle esigenze del regio fisco e delle potenti famiglie nobiliari che esigevano il pagamento di pedaggi per assicurare il transito e la sicurezza delle greggi transumanti lungo le vie armentizie, regolamentò, dal punto di vista territoriale e fiscale, la transumanza fissandone i percorsi (distinti in tratturi, tratturelli e bracci a seconda la loro larghezza, rispettivamente di 111, 50 e 18 metri), e affidando a un doganiere la riscossione della "fida", ossia il valore del foraggio. Tale regolamentazione, concedendo franchigie, immunità e benefici ai proprietari di greggi, determinò un notevole incremento nel numero di armenti transumanti da e per il Tavoliere delle Puglie e, a questo proposito, una qualche importanza dovette avere anche la Basilica di Juvanum (o quello che ne restava) che, come già ricordato, "pare essere stata Dogana de' Vettigali sulla pastorizia" (M. Torcia, op. cit.). Infatti il braccio tratturale che, da Massa d'Albe raggiungeva Lentella, passava per Colledimacine-Juvanum-Torricella Peligna.
Le nostre terre erano, inoltre, attraversate anche da un'altra via armentizia: il tratturello che da Rocca di mezzo...Palena, Taranta portava a Quadri e quindi a Celenza e che ricalcava quella che ancora oggi si chiama "Via del Tratturello".
La seconda, consistente nel pagamento di un tributo (10 carlini) per ciascuna famiglia, comportò un sensibile e squilibrato aumento della pressione fiscale che gravò soprattutto sulla povera gente. La riscossione di questa tassa comportava necessariamente la numerazione periodica (inizialmente triennale, in seguito quindicennale) di tutte le famiglie ("fuochi", come allora si diceva) del Regno. Quella del 1447 assegnava a Montenerodomo 155 abitanti (158 secondo il Croce).
Alla numerazione provvedevano appositi esattori chiamati "Numeratori" che, in quest'opera, si servivano dell'aiuto di cittadini del posto denominati Deputati e Massari. I deputati monteneresi della numerazione dei fuochi del 18 aprile 1447 erano dominus Symeon (il parroco) e Matteo Vetere (il camerlengo), i massari Butio Paomanti, un tal Bucciaroni, Matteo di Pietro di Altruda e Santa Crux, il capostipite della famiglia Croce. Le famiglie (i "fuochi"), in numero di 28, portavano i seguenti cognomi: de Altruda, Angeli, Bucciaroni, Croce, Conti, Fallocca, Ianniconi, Iannitelli, Lucci, Maria, Mastrangeli, Nero, Paomanti, di Pietro de Altruda, Pastore, Rainaldi, Vetere e Veto. (N. F. Faraglia, La numerazione dei fuochi delle terre della valle del Sangro, fatta nel 1447).
"Montenerodomo –scrive il Croce- era allora terra murata, con due porte, l'una detta di San Martino, sotto la chiesa matrice, e l'altra al capo opposto, dietro l'ora crollata chiesa di Santa Giusta... Oltre la chiesa matrice di San Martino con la "grancia" o dipendenza di Santa Lucia, sorgeva nel suo distretto, sul posto dell'antico Juvanum, l'abbazia cistercense di Santa Maria de Palatio, dalla quale dipendeva come grancia la chiesa di Santa Giusta... Il reggimento della terra si teneva da un camerario o camerlengo con due "massari" o assessori; la popolazione si componeva di pastori e di coltivatori, dei quali piccoli proprietari alcuni, altri censuari di terre del signore; un artigiano, o forse un notaio... e un prete o arciprete doveva essere dominus Symeon... le case erano basse... Nel punto più alto si levava una torre..."(B. Croce, op. cit.).
Montenerodomo, dunque, nel XV secolo, appariva arroccato attorno alla sua torre, menzionata altresì nei più volte citati Manoscritti dell'Antinori e che si elevava "nella Contrada Urbana di Santa Giusta, dove si dice essere stato un Castello ed una Chiesina denominata Santa Maria in Castello"
Altra notizia del castello di Montenerodomo si trova nella "Descrittione di tutta Italia..." di fra Leandro Alberti, il quale, visitando nel 1500 questa parte dell'Abruzzo, descrive "Monte Negro Castelli tra Penna di Huomo e Città Luparella", quest'ultimo allora "fortissimo castello et molto pieno di popolo".
La popolazione di Monte Negro, in costante crescita (il numero degli abitanti quintuplicò, in poco più di un secolo, passando dai circa 150 del 1447 ai 741 nel 1561), era, dunque, dedita alla pastorizia e all'agricoltura, coltivando i più, come affittuari, i terreni del Conte o della Chiesa. Infatti, nel feudo, ad eccezione di qualche "spanna di terreno" coltivata dai proprietari, tutto il resto apparteneva al signore, oppure era di proprietà ecclesiastica. Nel nostro territorio, infatti, oltre alla chiesa di San Martino con la "grancia" di Santa Lucia, la cappella di San Rocco "fuori le mura", la già ricordata chiesa di Santa Maria in Castello e quella di Sant'Antonio, sorgeva l'abbazia cistercense di Santa Maria del Palazzo, con la dipendenza della chiesa di Santa Giusta, che era ben fornita di beni temporali (A. Madonna ne ricorda alcuni situati nelle contrade Arciprando ed Acquaviva) e la cui amministrazione, di conseguenza, era a quel tempo molto ambita e frequentemente causa di liti.
Il feudo di Monte Negro, che nel 1446 apparteneva ancora al conte Antonio Caldora, passò l'anno successivo a Raimondo Caldora e, nel 1450, a Manfredino Bucca, signore di Alfedena, al quale successe il figlio secondogenito Anton Vincenzo ed a quest'ultimo il figlio Mario Bucca.